Una scomoda verità

2008-12-24

La legge 194 ha legalizzato l’aborto quando la gravidanza comporti «un serio pericolo per la sua [della donna] salute fisica o psichica». Come la 194 italiana, così anche in altre nazioni si è utilizzata la foglia di fico della “salute” della donna per legittimare luccisione di un figlio. Ma davvero l’aborto tutela la salute della donna? Ogniqualvolta uno studio mostra come non solo l’aborto non sia per nulla curativo ma sia anche dannoso, si cerca di metterlo a tacere. Questo è quanto è accaduto anche per lo studio di cui si parla qui di seguito, che oltretutto è stato eseguito da un medico pro-choice ateo che si aspettava tutt’altri risultati...



Uno studio effettuato in Nuova Zelanda, che ha tenuto in osservazione approssimativamente 500 donne dalla nascita a 25 anni d’età, ha confermato che le donne che abortiscono sperimentano in seguito elevate percentuali di comportamenti suicidi, depressione, abuso di sostanze, ansia ed altri problemi mentali.
Significativamente i ricercatori, guidati dal professor David M. Fergusson, direttore del Christchurch Health and Development Study, hanno scoperto che il tasso più alto di problemi mentali non poteva essere spiegato da altre differenze pre-gravidanza nella salute mentale, che era stata regolarmente controllata nel corso dello studio, durato 25 anni.

Le scoperte sorprendono i ricercatori pro-choice

Secondo Fergusson, i ricercatori avevano affrontato lo studio aspettandosi di essere in grado di confermare il punto di vista per cui eventuali problemi dopo l’aborto siano riconducibili a problemi di salute mentale esistenti prima dell’aborto. I dati hanno mostrato che le donne che rimanevano incinte prima dei 25 anni andavano incontro con maggiore probabilità a problemi famigliari e di adattamento, avevano maggiori probabilità di andarsene di casa in giovane età e avevano maggiori probabilità di iniziare una relazione di convivenza.
Comunque, tenendo conto di questi ed altri fattori, la ricerca ha mostrato che le donne che avevano abortito avevano probabilità significativamente più alte di sperimentare problemi di salute mentale. Così, i dati contraddicevano l’ipotesi che le differenze potessero essere spiegate da precedenti malattie mentali o altri fattori “predisponenti”.
“Sappiamo come erano le persone prima che fossero incinte” – ha detto Fergusson a The New Zealand Herald. Abbiamo tenuto conto del loro background sociale, di istruzione, etnia, salute mentale precedente, esposizione alla violenza sessuale, e tutta una serie di fattori.
I dati conducevano persistentemente alla conclusione politicamente sgradita che l’aborto può da solo essere la causa di successivi problemi di salute mentale. Così Fergusson presentò i suoi risultati al Comitato di Supervisione dell’Aborto della Nuova Zelanda, che ha il compito di assicurare che gli aborti in quel paese vengano eseguiti in accordo con tutti i requisiti legali. Secondo il New Zealand Herald, il comitato disse a Fergusson che sarebbe stato “indesiderabile pubblicare i risultati nel loro stato ‘non chiarito’”.
Nonostante la propria posizione politica pro-choice, Fergusson rispose al comitato con una lettera affermando che sarebbe stato “scientificamente irresponsabile” sopprimere le scoperte solo perché toccavano un argomento politico esplosivo.
In un intervista ad una radio australiana riguardo alle scoperte, Fergusson ha affermato: “Rimango pro-choice. Non sono religioso. Sono ateo e razionalista. Le scoperte mi hanno sorpreso, ma i risultati appaiono molto solidi perché persistono lungo duna serie di disturbi e di età… L’aborto è un evento traumatico della vita, cioè implica perdita, implica lutto, implica difficoltà. Ed il trauma può, di fatto, predisporre le persone a sviluppare una malattia mentale”.

Le riviste rifiutano i risultati politicamente scorretti

Il gruppo di ricerca del Christchurch Health and Development Study è abituato a vedere accettati i propri studi sulla salute e sullo sviluppo umano dalle più importanti riviste mediche alla prima presentazione. Dopo tutto, la raccolta di dati dalla nascita all’età adulta di 1'265 bambini nati a Christchurch rappresenta, fra gli studi protratti nel tempo, uno dei più duraturi e di maggior valore. Ma questo studio era il primo, tra quelli compiuti dall’esperto gruppo di ricerca, che toccava il dibattuto tema dell’aborto.
Fergusson disse che il gruppo “andò da quattro riviste, cosa molto insolita per noi – normalmente veniamo accettati la prima volta”. Alla fine, il quarto giornale accettò di pubblicare lo studio.
Sebbene mantenga tuttora una visione pro-choice, Fergusson crede che le donne e i medici non dovrebbero accettare ciecamente la pretesa infondata che l’aborto è in genere senza danni o benefico per le donne. Sembra particolarmente seccato dalle false assicurazioni sulla sicurezza dell’aborto date dall’American Psychological Association (APA) (vedi questo post)
Nel 2005 l’APA asserì che “studi ben congegnati” avevano scoperto che “il rischio di danno psicologico è basso”. Nella discussione dei loro risultati, Fergusson e la sua squadra evidenziano che l’articolo sulla posizione dell’APA ignorava molti studi-chiave che provano il danno dell’aborto ed hanno osservato solo un saggio selezionato di studi che hanno gravi pecche metodologiche.
Fergusson ha detto ai giornalisti che “rasenta lo scandalo il fatto che una procedura chirurgica che viene effettuata su più di una donna su dieci sia stata così poco indagata e valutata, considerando i dibattiti sulle conseguenze psicologiche dell’aborto”.
In seguito alle lamentele di Fergusson sulla natura selettiva e fuorviante della dichiarazione fatta dall’APA nel 2005, l’APA ha rimosso la pagina dal proprio sito internet. La dichiarazione può tuttavia essere ancora reperita attraverso un archivio web.

Lo studio può avere una profonda influenza su medicina, legge e politica

La reazione alla pubblicazione dello studio di Christchurch sta surriscaldando il dibattito politico negli Stati Uniti. Lo studio è entrato nell’ambito ufficiale alle udienze di conferma del Senato per il giudice della Corte Suprema Samuel Alito. Anche un sottocomitato del Congresso USA presieduto dall’onorevole Mark Souder (repubblicano dell’Indiana) ha chiesto al National Institute of Health [NIH, Istituto Nazionale di Sanità] di rendicontare quali sforzi il NIH sta effettuando per confermare o respingere le scoperte di Fergusson.
L’impatto dello studio in altri paesi potrebbe essere persino più profondo. Secondo il New Zealand Herald, lo studio di Christchurch potrebbe richiedere ai medici neozelandesi di certificare molti meno aborti. Circa il 98% degli aborti in Nuova Zelanda è effettuato sotto una disposizione nella legge che consente l’aborto solo quando “il proseguimento della gravidanza comporterebbe un serio pericolo (non essendo il pericolo normalmente concomitante alla nascita) alla vita, o alla salute fisica o mentale della donna o ragazza.”
I medici che eseguono aborti in Gran Bretagna affrontano un simile problema legale. Tuttavia, la richiesta di giustificare un aborto è anche più frequente nella legge britannica. Si suppone che i medici là eseguano aborti quando il rischio di danno fisico o psicologico derivanti dal proseguimento della gravidanza sono “maggiori di quelli che si avrebbero che se la gravidanza fosse interrotta”.
Secondo il ricercatore Dr. David Reardon, che ha pubblicato più di una dozzina di studi effettuando ricerche sull’impatto dell’aborto sulle donne, lo studio di Fergusson rinforza un crescente insieme di letteratura che mostra che i medici in Nuova Zelanda, Gran Bretagna e altrove affrontano obblighi legali ed etici per scoraggiare o rifiutare aborti controindicati.
“Lo studio di Fergusson sottolinea il fatto che la medicina fondata sui fatti non sostiene la congettura che l’aborto protegga le donne da un ‘serio pericolo’ per la loro salute mentale” – ha detto Reardon – “invece, i migliori studi indicano che più probabilmente l’aborto aumenta il rischio di problemi di salute mentale. I medici che ignorano questo studio potrebbero non essere più “in grado di sostenere di agire in buona fede e potrebbero quindi essere in contrasto con la legge”.
“Studi basati su cartelle cliniche, effettuati in Finlandia e negli Stati Uniti hanno provato in modo conclusivo che il rischio per le donne di morire nell’anno che segue l’aborto è significativamente maggiore del rischio di morte se la gravidanza viene fatta continuare” – ha detto Reardon, che dirige l’Elliot Institute, un’organizzazione di ricerca con centro a Springfield nell’Illinois – “quindi l’ipotesi che i rischi fisici della nascita superino i rischi associati all’aborto non è più sostenibile. Ciò significa che la maggior parte di enti che effettuano aborti hanno dovuto considerare i vantaggi per la salute mentale per giustificare l’aborto rispetto alla nascita”.
Ma Reardon ora crede che l’alternativa per consigliare l’aborto non superi più nemmeno il vaglio scientifico.
“Questo studio della Nuova Zelanda, con i suoi controlli senza eguali per possibili spiegazioni alternative, conferma le scoperte di diversi studi recenti che mettono in collegamento l’aborto con maggiori percentuali di ricovero psichiatrico, depressione, disturbo da ansia generalizzata, abuso di sostanze, tendenze suicide, scarso legame e scarsa educazione di figli successivi e disturbi del sonno” – ha detto – “Questo dovrebbe inevitabilmente portare ad un cambiamento nello standard di cura offerto alle donne con gravidanze difficili”.

Alcune donne potrebbero essere a forte rischio

Reardon, studioso di bioetica, è un difensore della “medicina basata sulle prove” – un movimento nel tirocinio medico che incoraggia il mettere in discussione le “pratiche accettate, di routine” che non si sono rivelate utili nei test scientifici. Se si usano gli standard applicati nella medicina basata sui dati – dice Reardon – si può solo concludere che ci sono poche prove che sostengano il punto di vista per cui l’aborto è in genere benefico per la donna. Invece, sembra molto più probabile il contrario.
“È vero che la pratica della medicina è sia un’arte che una scienza,” – ha detto Reardon – “ma, considerando la ricerca attuale, i medici che effettuano l’aborto nella speranza che produca più bene che male per una donna possono giustificare le loro decisioni con riferimento all’arte della medicina, non alla scienza”.
Secondo Reardon, i migliori dati medici disponibili mostrano che è più facile per una donna adattarsi alla nascita di un figlio inatteso che adattarsi allo sconvolgimento emotivo causato da un aborto.
“Siamo esseri sociali, quindi per le persone è più facile adattarsi ad avere una nuova relazione nella propria vita che adattarsi alla perdita di una relazione;” – ha detto – “nel contesto dell’aborto, adattarsi alla perdita è difficile, specialmente se ci sono sentimenti irrisolti di attaccamento, lutto o colpa”.
Considerando fattori di rischio noti, le donne che sono a maggior rischio di gravi reazioni all’aborto potrebbero essere facilmente identificate, secondo Reardon. Se ciò fosse fatto, alcune donne che sono a maggior rischio di reazioni negative potrebbero optare per la nascita invece dell’aborto.
In un recente articolo pubblicato nel Journal of Contemporary Health Law and Policy, Reardon ha identificato approssimativamente 35 studi che hanno identificato fattori di rischio statisticamente identificati che predicono in modo molto affidabile quali donne hanno maggiori probabilità di riportare reazioni negative.
“I fattori di rischio per il disadattamento furono identificati per la prima volta in uno studio del 1973 pubblicato da Planned Parenthood,” – ha detto Reardon – “da allora, molti altri ricercatori hanno fatto compiere ulteriori progressi alla conoscenza dei fattori di rischio che dovrebbero essere considerati per vagliare le donne a maggior rischio. Questi ricercatori hanno sempre raccomandato che i fattori di rischio dovrebbero essere presi in considerazione dai medici per identificare le donne che beneficerebbero di ulteriore assistenza psicologica, sia perché possano evitare aborti controindicati sia perché possano ricevere migliori cure dopo l’intervento per aiutarle ad affrontare le reazioni negative”.
Sentirsi sotto pressione da parte di altri per acconsentire all’aborto, avere convincimenti morali per cui l’aborto è sbagliato o avere già sviluppato un forte attaccamento materno al bambino sono tre fra i più comuni fattori di rischio, dice Reardon.
Anche se fare screening è una cosa sensata, Reardon dice che in pratica lo screening per i fattori di rischio è raro per due motivi.
“Primo, nella legge ci sono aberrazioni che proteggono gli enti che effettuano aborti da ogni responsabilità per le complicazioni emotive successive all’aborto;” – ha detto – “questa falla nella legge significa che le cliniche per aborti possono risparmiare tempo e denaro fornendo un’assistenza psicologica ‘buona per tutti’ invece di uno screening individualizzato”.
“Il secondo ostacolo nella strada dello screening è ideologico. Molti enti che effettuano aborti insistono sul fatto che non è compito loro capire se un aborto porterà a ferire più probabilmente che aiutare una certa donna. Concepiscono il proprio ruolo come quello di assicurare che ogni donna che vuole abortire possa farlo”.
“Questa mentalità da ‘il compratore stia in guardia’ [caveat emptor] non è coerente con l’etica medica,” – ha detto Reardon – “in realtà l’etica che governa la maggior parte dei servizi degli enti che effettuano aborti non è in alcun modo diversa da quella degli abortisti: ‘Se hai il denaro eseguiamo l’aborto’. Le donne si meritano di meglio. Si meritano di avere medici che agiscano come medici. Questo significa medici che diano un buon consiglio medico basato sui migliori dati disponibili, applicati al profilo individuale di rischio di ogni paziente”.
Fergusson crede anche che le stesse regole che vengono applicate ad altri trattamenti medici dovrebbero essere applicate all’aborto. “Se parlassimo di un antibiotico o di un rischio d’asma e qualcuno riportasse reazioni avverse, la gente solleciterebbe ulteriori ricerche per valutare il rischio,” ha detto al New Zealand Herald – “non vedo nessun buon motivo per cui le stesse regole non debbano essere applicate all’aborto”.

Riferimenti bibliografici:

David M. Fergusson, L. John Horwood, and Elizabeth M. Ridder, “Abortion in young women and subsequent mental health” Journal of Child Psychology and Psychiatry 47(1): 16-24, 2006.

Tom Iggulden, “Abortion increases mental health risk: studyAM transcript.

Nick Grimm “Higher risk of mental health problems after abortion: report”, Australian Broadcasting Corporation, 03/01/2006

Ruth Hill, “Abortion Researcher Confounded by Study”, New Zealand Herald 1/5/06

Documento – poi ritirato – dell’APA sull’impatto dell’aborto sulle donne (web.archive.org)

Reardon DC. “The Duty to Screen: Clinical, Legal and Ethical Implications of Predictive Risk Factors of Post-Abortion MaladjustmentThe Journal of Contemporary Health Law & Policy. 2003 Winter;20(1):33-114.

Per altre informazioni visitate il sito web dell’Elliot Institute: www.afterabortion.org

http://www.afterabortion.org/news/Fergusson.htm
Breve sommario dello studio di Fergusson (inglese)
Studio di Fergusson pubblicato sul British Journal of Psychiatry (PDF, inglese)
Studio di Fergusson pubblicato sullo Psychiatric Bulletin (PDF, inglese)


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