L'accoglienza delle donne ferite

2011-05-30

Testo della conferenza di Serena Taccari tenuta il 15/4/2011 a Trento su invito del CAV e del Movimento per la Vita di Trento.


Vi ringrazio per avermi permesso di essere qui, e per l’interesse mostrato nei confronti dell’operato dell’associazione IL DONO di cui sono con mio marito fondatrice e che attualmente presiedo. Sono ormai 5 anni che su diverse città Italiane la nostra associazione si rivolge alle donne che affrontano una gravidanza indesiderata, per tutti i motivi – sociali, economici, affettivi, medici – per cui essa può essere definita indesiderata e a chi ha vissuto un’esperienza di aborto volontario o terapeutico di gravidanza.
Quando abbiamo iniziato questa attività ci siamo resi conto con stupore che in Italia come in quasi tutta Europa, mentre fiorivano le iniziative a difesa della vita nascente, nessuno aveva rivolto la sua attenzione a chi ha abortito, e questo ci ha spinti ancora più a domandarci cosa facesse e come si sentisse una persona che ancora incinta è entrata in ospedale, e non più incinta dall’ospedale è uscita: colei senza la quale quel bambino così tenacemente – e giustamente – difeso nell’ambiente prolife, non avrebbe potuto esserci. Vedere la gravidanza, la donna in questa prospettiva, come entrante e uscente da una catena di montaggio mi è stato molto utile per comprendere come mai il movimento femminista si arrabbiasse tanto, gridando allo scandalo della “donna contenitore”, la famosa incubatrice che a detta loro, i prolife volevano sfornasse bambini e niente più. Se infatti ci si concentra sulla vita del bambino, certamente sacra, unica, importantissima, si perde di vista chi c’era prima, chi ci sarà dopo: la donna. Strano non ci avesse pensato nessuno.
Così nel 2005 abbiamo iniziato a “studiare” cosa si faceva in America riguardo il sostegno post abortivo, perché lì, probabilmente complice una legge sull’aborto estremamente liberal, che permetteva l’interruzione finanche contestualmente al parto, ha fatto sì che l’impatto sulle donne fosse anche più devastante, e quindi più clinicizzato e studiato. E poi si sa, in America si può dire tutto e il suo contrario, senza venire troppo imbavagliati. Fatto sta, i gruppi di supporto che abbiamo trovato sono tanti, di vario stampo,  tutti comunque con una forte impronta spirituale, probabilmente troppo forte per il nostro gusto, non riusciamo a entrare in sintonia con i progetti esistenti e ci imbarchiamo nell’impresa – per altro non preventivata – di fare qualcosa di diverso. Ci è risultato subito chiaro che non potevamo rivolgerci esclusivamente a chi aveva abortito: bisognava aprire una finestra sulla vita, sulla nascita, argomento così difficile da trattare per chi ha affrontato l’ivg. Eppure la vita è varia, non si fa a scomparti: così al parco piuttosto che al supermercato incontri la mamma, la nonna, la donna incinta, la zitella, l’ammogliata, le amiche, le solitarie.. il mondo è vario come lo sono le esperienze di vita, come lo siamo tutti noi. Così questa realtà così particolare che è il dono, si muove sull’integrazione di due emisferi che solo apparentemente sono distanti anni luce, come spaccati a metà tra vita e morte: la gravidanza e il post aborto. Ambiti che diventano molto più vicini se si cambia prospettiva e invece di focalizzarsi sulla vita del bambino si punta su quella donna che del bambino è solo incidentalmente contenitore.
Guardando quella donna, fissi su di lei, è facile capire tante cose della visione femminista: la prima e fondamentale per comprendere il lavoro che noi facciamo è che “nessuna donna desidera abortire come desidera un gelato o una bella macchina: desidera l’aborto come un animale nella tagliola che desidera strapparsi la zampa” (Frederica Mattew Greens – Feminists for life) : nessuno che io abbia mai conosciuto mi ha mai detto voglio andare a fare a pezzi mio figlio. Nessuno mai. Tutte in preda al panico hanno cercato la via di fuga più rapida e apparentemente più scevra di conseguenze per “non essere più lì, non essere più io, non essere più ora”. E non si sono rese conto che senza quella zampa sarebbero rimaste mutilate per sempre…e da lì in poi, avrebbero sì continuato a camminare, ma zoppicando. Irreversibilmente. 

“...forse qualcuno ti dirà che insieme a tuo figlio morirai anche tu, ma questa è una verità relativa, la verità schiacciante è che non morirai affatto, a te sarà concesso di vivere, e quella sarà la tua punizione più grande.
Vivere con un fardello enorme da portare, con la consapevolezza che tu, solo tu, hai ucciso tuo figlio. Tu che dovevi amarlo e proteggerlo, tu che sei la sua mamma, l'unica di cui tuo figlio ha bisogno...”


...ma se è irreversibile, se tanto ormai zoppicheranno... a cosa serve dire qualsiasi cosa... in fondo quel che bisogna fare, si sa, è voltare pagina, è andare avanti... smetterla di guardare indietro, perché ormai hanno capito il valore della vita: non abortirò più, ti ripetono.. quel che bisogna fare è prendere quello che si è imparato di buono da questa esperienza negativa e riprendere in mano la propria vita, lì dove la si è interrotta…
Questa visione, che prende in considerazione l’aborto come uno “scivolone”, una sbandata, un errore madornale da cui però ci si riprende, e si ritorna nei binari, è una visione distorta. In quali binari vogliamo tornare: forse quelli alla cui conclusione c’era l’aborto? perché se sono quelli, sempre lì porteranno in un modo o nell’altro. Niente nella nostra vita può e deve essere considerato semplicemente uno scivolone: perché siamo esseri complessi, e siamo un “tutto intero” dall’inizio alla fine. Così solitamente paragono l’aborto alla cima di un iceberg: quella più evidente, ma non la parte più grande, non il basamento. E nessun percorso sarà utile se non è volto a sradicare quella che si può definire una mentalità abortiva dalla vita di una persona: infatti perdono di senso, a lungo termine, tutte quelle pratiche di pietà che fanno appello a un senso religioso che pure è buono ma non costituisce una base solida per la guarigione da una ferita....un po’ come dire che per guarire da una polmonite prendo lo sciroppo per la tosse... sì, certo, magari per un po’ la tosse si allevia..ma lungi da me aver risolto il problema.
Finché non si prende seriamente coscienza della propria posizione attiva nella scelta di aborto, scevra da tutti i condizionamenti esterni e non si scende più  in profondità delle motivazioni pur vere ma relative, rappresentate dalle costrizioni esterne come i genitori, la famiglia il compagno, non è possibile sradicare quella mentalità abortiva dalla propria vita. Perché non si arriva ad uccidere un figlio così, dalla sera alla mattina come colti da un raptus: come per qualunque scelta radicale che si fa, i passi per arrivarci sono sempre graduali (non ci si improvvisa Mahatma Ghandi o Madre Teresa,  ugualmente non ci si improvvisa mostro di Firenze) ed è proprio quella gradualità di gesti concreti che ha costituito la piattaforma ideale su cui la mentalità abortiva è andata a radicarsi, che ha bisogno di tempo per essere oggettivizzata, di duro lavoro per prenderne consapevolezza e grande forza di volontà e desiderio profondo di guarire per poter essere rimossa dalla propria vita, perché questo costa dolore. Allora sì, sarà reale il “non abortirò più” esteso non solo alla vita di un figlio ma a tutta la propria esistenza.

Mi chiedono quanto dura un percorso, quali sono le tappe da fare... tutto questo non ha uno standard, un tot di cose da fare per stare meglio... ma posso dirvi che chi vi dice che la ferita di un aborto si guarisce in otto sedute o in un weekend vi sta ingannando: se mangio un barattolo di nutella passo ben più di qualche giorno in bagno... un figlio si risolve in meno tempo? Allora è vero che non è poi una cosa così grave! Allora è vero che tutto sommato le conseguenze di questo sono meno serie e durature che il portare avanti la gravidanza!
Quello che noi offriamo è un percorso che ha tre caratteristiche fondamentali, come ogni scelta seria della propria vita, dove l’alienazione della società di oggi ci illude dell’esistenza di vie facili veloci e indolori per vivere – anche l’aborto è proposto così, in fondo – è un percorso lungo, doloroso e difficile. Come costa tempo, fatica e sofferenza ogni cosa che realmente ha valore nella propria vita.
Anche mettere al mondo un figlio.

Spesso mi si chiede di parlare di come sosteniamo le donne ferite, come il titolo da voi scelto per il mio intervento di stasera. Con questa domanda si sottende un interessamento per il nostro lavoro sul post aborto. Ma questa è solo una parte della nostra attività e non può essere slegata dal resto di quello che noi facciamo e che non è soltanto l’accompagnamento nelle prime fasi della gravidanza né soltanto l’alternativa all’aborto.
Perché è facile guardare le ferite dell’aborto, ma io stasera vorrei parlarvi di altre ferite, che forse, incantati dalla bellezza di un bambino che nasce, è facile non riuscire a vedere o desiderare non vedere; perché c’è una presbiopia non consapevole, involontaria, cui purtroppo siamo affetti noi che lavoriamo per la vita e che è di nuovo legata al focalizzarsi su uno e perdere di vista l’altro, pensando che un piccolo che sorride risolva col suo sorriso gli irrisolti profondi dell’adulto... e in questo modo attribuendo una grandissima responsabilità – ingiusta e nient’affatto pedagogicamente corretta – a quel bambino che non ha colpa delle scelte degli adulti, del fatto che lui, concepito da due persone, soltanto da una sia cresciuto; e che ci spinge a dire non pensarci più a lui, non ti meritava, tu sei stata forte, basta questo, l’amore di tuo figlio ti ricompenserà... tutte cose vere, ma parzialmente; c’è altro, e non parlarne serve solo a aumentare la vergogna dei propri sentimenti, ad accrescere il tabù, a slabbrare la ferita che si porta dentro, perché quel “altro” esiste eccome ed è assolutamente vero e concreto, e questo nostro atteggiamento verso chi porta avanti da sola una gravidanza è di nuovo – proprio come dire “vai avanti” a chi ha abortito – soltanto la cosmesi del dolore: di fronte a noi c’è una donna che ama infinitamente suo figlio che lei non ha abortito ma che dentro sé probabilmente continua a sentirsi un aborto, rifiutata, buttata via, non amata proprio nel momento in cui era più indifesa, proprio nel momento in cui natura vuole che come la donna è chiamata a custodire la vita che culla dentro di sé così l’uomo è chiamato a custodire la donna, culla della vita.
Non lo dico io, questo, sarebbe soggettivo per quanto posso dire che nella mia vita, nella mia personale esperienza di ragazza madre, tutto questo è stato assolutamente vero. Lo dicono le ragazze che seguo, cui offriamo un percorso di auto aiuto, cioè di aiuto tra pari, per poter condividere ed elaborare queste emozioni e per poter guarire da queste ferite. Questo che vi leggerò sono testimonianze tratte da un libro che stiamo per pubblicare.

Scrive una mamma:
Ci prendiamo un week-end di vacanza. Ma questo, che doveva servire per riprendere le forze e caricarci per affrontare il mondo, in realtà mi sta distruggendo. Più cerco di attirare la sua attenzione, più lui mi rifiuta e mi allontana. Vorrei gridare: “sono quaaa! Siamo quaaaa!”
Non so cosa sto facendo, come mi comporto. È come se non dominassi più le mie reazioni. E bevo pure, anche se non dovrei farlo con te dentro. E piango e rido.
Nel viaggio di ritorno, in auto non parliamo. Rompo il silenzio io: “Vorrei andare via, lontano da tutto e da tutti.” – “Allora, vattene.” Mi risponde. “È una cosa che hai sempre voluto fare. Falla adesso e vattene.”
Mi continuano a risuonare in testa queste parole, mentre, chiusa nella mia stanza, cerco di lottare contro la nausea e le lacrime. Mi sento sola, solissima.

Scrive un’altra mamma:
Scrivo perchè ho passato tante notti tra le lacrime e col magone a cercare se c'era qualcun altro sulla faccia della terra sfigato come me.

Scrivo perchè so cosa si prova a spegnere la luce la sera quando dentro non l'hai mai accesa per tutto il giorno e tutto quello che riesci a vedere è sempre e solo buio.
Scrivo perchè sono ancora in mezzo ai guai anche se mio figlio è la cosa migliore che io potessi fare.


Scrive una neomamma:
L’autostima... penso di averla persa completamente. Lo so che la piccola è quanto di più bello ci sia nella mia vita, ma continuo in fondo a pensare che devo fare davvero schifo, devo essere davvero indesiderabile per venire abbandonata proprio mentre porto tuo figlio dentro... tuo figlio... avresti dovuto essere fiero un po’ anche di me... probabilmente non me lo merito.


Scrive una mamma di un bimbo già grande:
Conosco ragazze che ce l'hanno fatta, conosco donne che si sono sposate o che convivono...insomma che hanno rimesso in sesto in qualche modo la loro vita, che se la sono concessa una vita. Io non ancora. O forse dovrei semplicemente dire io no, non me la sono concessa... o forse è proprio che non c'è per me il mondo oltre il passeggino..


Penserete “beh ma queste sono depresse…” ditemi, non è forse questa la prima accusa che si fa parlando della sbandierata sindrome post aborto “quelle che vanno in depressione è perché erano già depresse..” allora abbandonate questa prospettiva. Queste donne sono donne solari, che hanno una forza di reazione enorme..se voi poteste conoscerle! Sono donne forti, capaci di una rara introspezione, capaci di guardarsi dentro e che hanno lottato anche con se stesse per portare alla luce questi sentimenti che sono costati loro tante lacrime, piante insieme perché credetemi, non è facile neanche per me, per noi operatori stare vicino a loro.
E capisco benissimo che mentre leggevo, se non avete pensato “sono depresse” l’istinto vi ha fatto pensare “non è vero! Perché pensa questo! Non è così, qualcuno gli dica di  smettere di pensarlo!”
Smettete voi, piuttosto.
Non è forse la stessa cosa che dice una madre o un’amica che vede soffrire una figlia per l’aborto fatto, cercando di darle consolazione? Perché c’è un fatto reale, concreto che vi smentisce: è vero, sono state rifiutate, è vero sono state non amate, sono state buttate via, sono state abortite. È la loro storia che parla e non serve a niente mettere un altro evento in mezzo per fare chiodo scaccia chiodo: sei stato rifiutato, è nato un bambino, hanno due soggetti diversi, sono due realtà distinte, hanno ripercussioni distinte. Mi direte che qui non muore nessuno; io vi rispondo, forse che una donna che ha abortito è lei che muore? Non è forse il figlio che muore? E non parliamo per lei invece di una morte ontologica, profonda, del suo essere? E qui non si parla forse dell’avere visto uccidere la propria identità di donna “degna di essere amata” ?
Credo che in fondo sia solo una questione di cambio di prospettive, un po’ come mettere gli occhiali a un presbite perché le ferite sono più vicine a noi di quello che pensiamo e meno scontate di quello che ci aspettiamo..

Provate a immaginare quando qualcosa di così grande, enorme, devastante io spero di avervene comunicato almeno un po’ del peso emotivo, ce l’hai dentro e cresce – perché qualsiasi radice che non estirpi, come erba parassita continua a crescere, e che da qualche parte si deve vedere. Provate a pensarla, presente nella relazione col figlio, presente nella relazione con gli altri uomini, presente nella relazione con se stesse. Riuscite a immaginare, potete provare a calarvi in quali conseguenze può avere? Al di là della indiscussa capacità di relazionarsi col bambino, di amarlo di curarlo come la propria vita, anzi di più della propria vita, che si può arrivare a disprezzare così tanto, schermandosi con quella del bambino, da ritenere di non doversi affatto curare... che tanto io non sono così importante... l’importante è lui, che lui o lei stia bene... e davvero pensate che starà bene lui/lei? Davvero pensate che si possa trasmettere equilibrio se dentro l’equilibrio non ce l’hai? Abbiamo cominciato da due anni a proporre gruppi di auto aiuto, appuntamenti fissi con le mamme single, proponendo di portare i bambini, offrendo babysitting in sede; abbia proposto gruppi di auto aiuto fatti online e vi assicuro che è difficilissimo che le mamme single ti seguano in un percorso strutturato, perché sono concentrate sul bambino, hanno spostato l’attenzione da sé, che da una parte è giusto, è fisiologico, ma dall’altra non può significare che io rinunci a curarmi perché ho un bambino da curare... è un paradosso! E in questi gruppi si sono sentite libere di esprimere i sentimenti riguardo all’abbandono, di parlarne di poter vedere senza paura cosa stava significando per loro questo essere state in qualche modo abortite, loro che si sentivano giustamente in diritto di essere curate ancora di più, come stanno facendo col loro piccolo. Fare finta che “tanto ormai va tutto bene” è troppo superficiale... non sentite che qualcosa stona? Come si fa a bypassare un pezzo così critico, così drammatico della propria vita, a pensare che ci sia stato un esito positivo solo perché c’è un bambino?
Vorrei che poteste vedere come questo è profondamente legato alle ferite lasciate dall’aborto. Qualcuno dice, parlando del post aborto “da questa esperienza così negativa ho imparato che la vita è importante e va difesa; questa esperienza mi ha insegnato tanto” ma come?! Stiamo dicendo forse che uccidere qualcuno insegna cose belle? Allora è consigliabile farlo! Perché in un mondo che non vuole imparare nulla di nuovo, se c’è qualcosa che insegna in positivo, meglio provarla... io spero che vi venga la nausea soltanto a pensarla una cosa del genere. È la vita, non la morte che insegna qualcosa: perché la vita di quel figlio che è stato abortito avrebbe comunque cambiato la vita della madre; è la vita che insegna, non la morte, è la propria vita che va ripresa in mano e per questo è necessario un percorso di guarigione: le ferite di morte sono solo ferite di morte. Si deve prenderne atto, si può prenderne atto, ma di positivo, in sé stessa la morte non ha nulla. Nessun peccato ha in sé qualcosa di positivo. O non sarebbe peccato. È tutto danno, niente vantaggio.
Che vantaggio c’è dall’essere abbandonati? Dall’essere rifiutati? Dall’essere messi alla gogna? Davvero pensate se ne tragga vantaggio? Mi risponderete ma nasce un bambino! Beh ecco, cambiano i soggetti.. il bambino è altro. La donna la gogna la prende lei, l’abbandono, anche il rifiuto idem... il bambino è bellissimo... certo ma il soggetto era la donna... so che non è immediato ma spero di avervi trasmesso questa visione così strana solo in apparenza e così esistenziale, così profonda, così centrata sul fatto che la vita di ciascuno di noi è un dono, non solo quella del bambino che nasce, ma quella mia, di donna, che deve essere trattata come una perla preziosa, custodita curata, lucidata, portata sul palmo della mano con tutte le sue sfumature e senza sminuirne nessuna.
Quello su cui vi invito a riflettere è questa necessità. Che ci sia bisogno di guarigione dall’aborto è una cosa che non dovevo venirvi a dire io. Una cosa che sapevate già, di cui avrete certamente letto di cui vi avranno parlato specialisti e professionisti prima di me. Ma vorrei mettervi dentro il desiderio di adoperarvi in questo senso: perché come un infelice mette al mondo un altro infelice, così una persona capace di sentirsi amata mette al mondo e cresce un figlio capace di sentirsi amato. Se non trasmettiamo il desiderio di sentirsi amate perché si è se stesse, non perché hanno un figlio e quindi non solo perché sono mamma, alle persone che accogliamo , stiamo lavorando a metà.
E se questo non lo crediamo noi, che lavoriamo per la vita, e non lo crediamo vero sui vivi che abbiamo di fronte e che vediamo, sarà difficile che gli altri imparino a guardare la vita che di fronte a sé non vedono.
Grazie

L'accoglienza delle donne ferite