Vidi il bambino aprire la bocca

2014-04-27

Questa testimonianza è di Joan Appleton, una donna che lavorava all’interno del mondo abortista ed è in seguito diventata prolife.


Come ho cominciato a lavorare nel mondo dell’aborto? Ero molto attiva nella National Organization for Women (NOW). Come infermiera professionista, pensai di avere una magnifica opportunità, come infermiera e come convinta assertrice della libertà di scelta, di mettere in pratica le mie convinzioni politiche. Lo considerai un dono, così lavorai sodo alla clinica per quattro anni e rimasi attiva nel NOW.

Il trauma dell’aborto è innegabile

Una delle cose che mi turbavano anche mentre ero infermiera capo alla clinica è che l’aborto era un trauma molto emotivo per una donna e una decisione molto difficile da prendere da parte di una donna.
Se avevo ragione, perché era così difficile? Dovevo chiedermelo continuamente. Avevo assistito psicologicamente così bene quelle donne, erano molto sicure della loro decisione, e allora perché ritornavano dopo mesi ed anni, psicologicamente distrutte?
Il mio supervisore mi diceva: «Se hanno qualche problema dopo l’aborto è perché avevano qualche problema prima dell’aborto.»
Noi del movimento pro-choice e nell’industria dell’aborto neghiamo che esista qualcosa come la sindrome post aborto. Però è reale, e ragazze e donne ritornano davvero. Non potevo negare la loro presenza.

Un terribile aborto con l’ecografo

Un’altra cosa che mi infastidiva, mentre continuavo il mio lavoro alla clinica, era il fatto che avevo visto un aborto con l’ecografo. Facevamo aborti al primo trimestre. Questo era un caso al termine del primo trimestre, forse del secondo trimestre. Non mi ricordo quale fosse il problema specifico, ma volevamo fare l’aborto con l’ecografo, per essere sicuri di aver preso tutto il bambino per intero. La terminologia era che volevamo assicurarci di prendere l’intera gravidanza. Maneggiavo l’ecografo mentre il medico effettuava la procedura, e lo guidavo mentre guardavo lo schermo.
Vidi il bambino tirarsi indietro. Vidi il bambino aprire la bocca. Avevo visto “L’urlo silenzioso” diverse volte, ma non mi aveva fatto effetto. Per me era solo propaganda prolife. Ma non potevo negare ciò che avevo visto sullo schermo. Dopo la procedura stavo tremando, letteralmente, ma riuscii a rimettermi a posto e a continuare quel giorno.

Gli abortisti lo fanno per denaro

I medici a cui ricorrevamo erano principalmente medici che stavano cominciando a praticare, e facevano aborti finché non raccoglievano abbastanza denaro per aprire un proprio studio privato.
O erano medici che non avevano molta pratica e facevano aborti per pagare la loro assicurazione contro gli errori professionali.
Nei cinque anni in cui ho lavorato là, non ho mai, mai visto un medico che facesse aborti perché credeva che fosse un diritto della donna. Non era una cosa tra le loro priorità. Non dico che non esistano, ma certo io o la mia clinica non lo possiamo dire.

La pillola contraccettiva e l’aborto

Divenni sempre più coinvolta politicamente. Eravamo una clinica a 360 gradi. Trattavamo tutti i tipi di malattie sessualmente trasmissibili, controllo delle nascite, condom, ogni cosa. Cominciai a lavorare di più con organizzazioni come Planned Parenthood, NARAL e NAF su certi progetti.
Distribuivo pillole contraccettive dopo un aborto, ed è qui che ho imparato dov’è il vero affare e il vero lavoro dell’industria dell’aborto.
Ero capace di dare assistenza psicologica ad una donna e dire: «Bene, non vogliamo che tu debba affrontare ancora questa procedura. Vogliamo che cominci a prendere le pillole anticoncezionali. Ti daremo la prima confezione gratis». Potevamo fare così perché le compagnie farmaceutiche ce le davano gratis. È un buon marketing. Così potevamo distribuire una confezione gratis e scrivere una ricetta valida per cinque mesi.
«Se la pillola non funziona con te stavolta, può darsi che sia un po’ troppo forte. Ma non preoccuparti, ritorna perché ce n’è una di un dosaggio un po’ più basso.»
Ora, le compagnie farmaceutiche e Planned Parenthood e l’industria dell’aborto non erano stupidi. Sapevano che con una minore dose di estrogeni in quelle pillole, era più probabile che non avrebbero funzionato. Ma non devi preoccuparti. Possiamo riportarti qui per un altro aborto.
Usano anche le percentuali, per la cronaca. Tasso di fallimento del trenta percento, perché davamo la pillola con pochi estrogeni. Questo significa che il trenta percento sarebbe ritornato. E abbiamo dimenticato di dirti, tra l’altro, che se hai l’influenza e devi prendere gli antibiotici, la reazione chimica tra la pillola e l’antibiotico rende la pillola inutile, e totalmente inefficace, così abbiamo un altro venti percento. Grazie, torna a trovarci.
Quando cominciai a fare assistenza psicologica alle donne c’erano sette tipi di malattie sessualmente trasmissibili. Ora ce ne sono venti. Ma non preoccuparti, puoi tornare da noi per questo. Naturalmente ti daremo dei farmaci per quello, e sappiamo ciò che gli antibiotici fanno alla pillola. Bingo! Abbiamo un altro dieci-quindici percento che ritorna. Grazie.

La bugia del “sesso sicuro”

Ora andiamo nelle scuole e insegniamo il “sesso sicuro” perché a noi stanno a cuore le donne. Diciamo loro di usare i condom. Devi usare i condom con una gelatina o schiuma, mai da soli. Sappiamo tutti che farai comunque sesso, quindi potresti proteggerti.
Poi venne fuori l’AIDS e noi diciamo ancora, e Planned Parenthood dice ancora, di usare il condom. Quello che realmente dicono è: Non funzionerà, e avremo una certa percentuale di voi che ritornerà. Poiché il virus dell’AIDS è 100 volte più piccolo di uno spermatozoo, avremo davvero una bella percentuale di fallimento con il condom. Quindi in sostanza quello che stanno facendo oggi è andare nelle scuole e dire: Ragazzi, sappiamo che farete sesso ed è OK. Se usate i nostri condom e i nostri metodi di controllo delle nascite, e se fate sesso sicuro, solo tre o quattro di voi moriranno, gli altri vivranno.
È come dire a un gruppo di liceali: Voi tutti avete pistole. Sappiamo che le userete comunque, quindi ho questo bel giubbotto antiproiettile per voi. Non fermerà tutti i proiettili tutte le volte, quindi tre o quattro di voi verranno uccisi comunque.

Delusa dal movimento pro-choice

Questo è ciò che mi fece arrabbiare. Avevo cominciato a far parte del movimento pro-choice credendo che aiutasse le donne, credendo che le donne avessero diritto di scegliere. Avevano diritto di vivere, avevano diritto di andare avanti. Pensavo che assistendo le donne le stavo aiutando a superare una situazione difficile così che potessero continuare le loro vite. Dicevo loro che erano la persona più importante della terra, e che quando tutto questo fosse finito, avrebbero potuto continuare le loro vite.
Ma dovetti fermarmi e dire: «Che succede? Perché questo non succede? Invece voi uscite e rimanete ancora incinte. Vi ammalate. Come vi aiuto?» Queste erano le domande che continuavano a tormentarmi.
Alla fine decisi che le mie domande erano troppo forti. Non mi piaceva quello che succedeva. Non mi piaceva quello che era diventato “i nostri corpi, noi stesse”. Non mi piaceva quello che facevamo per le donne. Se avevo ragione, perché soffrivano? Che cosa avevamo fatto? Avevamo creato un mostro e non sapevamo che cosa farci. Andai da Debra, una volontaria prolife, e cominciai a fare domande. Parlammo a lungo. Diventammo amiche.

Uscire dall’aborto

La mia uscita dal NOW fu quando ero ospite a parlare ad una cena del NOW in Virginia. Salii sul podio e dissi: «Gente, non posso farlo più. C’è qualcosa di sbagliato qui e non posso più essere parte dell’industria dell’aborto o parte del movimento pro-choice e quindi non posso più fare parte del NOW».
Mi chiesero di andarmene subito. Per un po’ ci fu del movimento. Erano persone con cui avevo lavorato sodo nell’organizzazione, persone che avevo addestrato ad accompagnare le donne alla clinica. Il mio ultimo giorno alla Commonwealth Women's Clinic capitò proprio lo stesso giorno in cui un gruppo di prolife stavano facendo dei salvataggi nella zona di Washington DC.
Joan Appleton con Debra e padre Frank Pavone
Debra ed io eravamo diventate amiche intime, e lei stette con me quando venne in città per questi salvataggi. La lasciai in centro al mattino presto, era novembre, e c’erano migliaia di prolife ovunque. Lasciai Debra e tornai alla clinica per organizzare la difesa contro i prolife.
Quel giorno in città c’era un gruppo di uomini e donne della comunità pro-choice della Francia per le udienze in Senato sulla RU486. Era il 1989. Queste persone che venivano dalla Francia volevano una dimostrazione clinica e scelsero la mia clinica.
Mi chiesero di fare un giro per la clinica e di farsi spiegare le procedure. Fu il mio ultimo incarico ufficiale. Portai il gruppo francese in giro per la mia clinica per aborti, spiegai i dettagli e basta. Avevo fatto tutto. Me ne andai.



Dopo la conversione alla causa prolife, Joan ritornò alla sue radici cattoliche, riconciliandosi con Dio e diventando un membro fedele della sua chiesa.
La sua autobiografia, “Raising Cecelia”, racconta la storia della sua conversione.
Joan ha fondato e coordinato la “Società dei Centurioni”, che così si descrive in un suo opuscolo: «Il Centurione che stava ai piedi della croce di Cristo improvvisamente provò orrore per la crocifissione che gli avevano ordinato di eseguire. Quando Cristo morì, questo Centurione lasciò cadere la spada e cadde in ginocchio esclamando: Certo, questo era un uomo innocente. Quelli di noi che hanno partecipato all’uccisione di bambini innocenti sono i centurioni di oggi, che hanno preso parte alla morte di bambini non ancora nati, si sono pentiti e hanno dichiarato: Certo, queste erano vite innocenti. Ora dobbiamo riconoscere la profondità della nostra colpa e affrontare le conseguenze... Per rivitalizzare la nostra umanità abbiamo bisogno di perdonare ed essere perdonati, riconciliare ed essere guariti».
Joan è morta nell’agosto del 2012, aveva 64 anni.



Fonti:


Ero cieca, ma ora vedo

2014-04-13

Mi chiamo Cindy e, purtroppo, la mia storia non è unica. Sono una sopravvissuta post aborto. Uso questo termine per aiutare gli altri a capire che l’aborto non uccide solo il bimbo concepito; esso lascia anche un seguito di vittime. L’aborto non è una “procedura” da cui una madre e un padre possano allontanarsi senza cicatrici dolorose e permanenti.
Ero pro-choice dalla prima volta che avevo sentito parlare di aborto, che fu nel 1980. Un’amica con cui andavo al liceo rimase incinta del suo ragazzo, e decise di abortire. Erano passati solo 8 anni dalla sentenza Roe v. Wade [che ha legalizzato l’aborto negli USA], ed ero una donna molto intellettuale. Non era una vita che veniva uccisa, era una vita potenziale. La vita si auto-sosteneva, e il corpo di una donna era semplicemente un sistema di supporto vitale per quella vita potenziale. Non sarebbe stato legale se consistesse nel porre fine alla vita di qualcuno. Acconsentii a portare la mia amica alla clinica per aborti perché non voleva che nessun altro lo sapesse. Il suo ragazzo la implorava di non abortire. Era così sconvolto e sembrava davvero essere devastato. Sentii molto dispiacere per lui perché chiaramente voleva diventare padre, ma non aveva alcun diritto di chiedere alla mia amica di far affrontare a sé stessa e al suo corpo la gravidanza e il parto. Alla fine lei lo disse alla madre che la portò, e la vita sembrò essere felice e normale per lei, dopo la procedura.
Quando rimasi incinta nel 1985, il mio ragazzo mi disse che per noi non era il momento giusto per avere un bambino, e che ci sarebbe stato tanto tempo per noi per avere una famiglia. Acconsentii senza obiezioni a questa decisione perché non era ancora un bambino, o almeno questo è ciò che credevo. Ero a circa sei settimane dall’ultimo ciclo e non avevo motivi fisici per sapere che stava accadendo qualcosa nel mio utero. Abortii e fui colpita da quanto fu doloroso. Mi avevano detto che sarebbe stato veloce e indolore, e che sarei tornata alla normalità in un giorno. Passai i due giorni successivi sul divano piangendo per il dolore e per il senso di depressione. Sentii molta più vergogna e paura che qualcuno scoprisse ciò che avevo fatto di quanto ne avrei sentito se qualcuno avesse scoperto che avevo avuto rapporti sessuali prematrimoniali ed ero rimasta incinta. Non capivo che cosa mi stesse capitando. Mi convinsi che sarebbe passato e finsi che la vita fosse normale e felice. Circa otto mesi dopo feci un sogno in cui vedevo il mio bambino. Lo tenevo tra le mie braccia e ci guardavamo amorevolmente l’un l’altro. Era così bello. Quando mi svegliai capii di aver appena visto mio figlio. Come normalmente accade, il padre ed io non restammo insieme. Questo era solo l’inizio della mia storia post aborto e del lungo viaggio da pro-choice a pro-life.
Continuai ad essere pro-choice e credetti che fosse semplicemente il lutto per la perdita di una “potenziale” maternità. Da quel momento la mia vita si riempì di comportamenti distruttivi. Divenni promiscua e cominciai a bere fortemente. Qualsiasi cosa per aiutarmi a smorzare il dolore e la vergogna che sentivo. Feci anche ciò che potevo per evitare di rimanere incinta, perché mi sentivo indegna di avere un altro bambino. Pregavo Dio che mi facesse morire in un incidente così non avrei continuato a provare così tanto dolore. La vergogna mi impedì di cercare l’aiuto di cui avevo bisogno. Un paio d’anni dopo condivisi la storia del mio aborto con un’amica. Cominciai il processo di perdonarmi. Il perdono venne, ma la vergogna stette con me per 23 anni.
Dopo un matrimonio fallito, ed essere piombata in una completa disperazione, dissi a Dio che l’avrei seguito ovunque mi avesse condotto. Mi condusse alla Chiesa cattolica e nell’autunno del 2007 entrai a far parte di un corso RCIA [Rito di iniziazione cristiana per adulti]. Fu conoscendo le vite di tanti santi che capii che Dio mi aveva perdonata, che ero degna del suo amore, e che non dovevo più provare vergogna. Sentii il desiderio di aiutare altre colpite da un dolore simile, e così decisi di parlare a uno dei nostri preti del mio aborto e mi offrii di condividere la mia esperienza con altre donne post-abortive o che pensassero di abortire. Due giorni dopo ero alla scuola superiore cattolica e stavo per far conoscere il mio più grande peccato a ben più di quattro persone che lo conoscevano, a tanti ragazzi e insegnanti, alcuni dei quali sapevo che mi avrebbero riconosciuta. Dopo aver condiviso la mia storia, ciò che avvenne mi prese completamente di sorpresa. Mi espressero ammirazione per il mio coraggio, solidarietà per il mio dolore, e amore che mi sollevò più in alto di quanto pensavo umanamente possibile. Non so se abbia aiutato qualcuno degli studenti, ma Dio mi guarì proprio in quel giorno. Satana non mi teneva più prigioniera nella vergogna, e sapevo che non sarei più stata zitta! Allora compresi che la vita e la morte dovrebbero essere lasciate a Dio e non agli uomini. Ancora non avevo compreso che avevo dato il consenso affinché il mio figlio fosse ucciso. Ero ancora sotto l’illusione di avere solo acconsentito a non permettere alla vita di crescere nel mio grembo. Dio è tanto misericordioso e sapeva che non potevo gestire la verità tutta in una volta.
Cominciai a leggere, a cercare di informarmi per quanto possibile riguardo all’aborto. Fu durante questa ricerca che appresi che il battito cardiaco può essere rilevato già da 18 a 22 giorni dopo il concepimento (cinque settimane dall’ultimo ciclo). La verità venne allora alla luce e cominciai a piangere e non smisi per un paio d’ore. Non potevo permettere agli altri di essere ciechi rispetto alla verità e di patire tutto il dolore e la sofferenza che avevo sperimentato. Sapevo che Dio mi aveva portata alla verità gradualmente così che fossi capace di condividere la mia testimonianza con altri.
Avrò il lutto per mio figlio e per la mancata occasione di maternità per il resto della mia vita, perché ho sempre desiderato dei figli. So che mio figlio, Francis McKinley, sa che lo amo e che ero cieca riguardo a quando comincia la vita. In memoria del mio adorato figlio, non starò zitta sulla verità che la vita comincia nel momento del concepimento.

Cindy ha pubblicato la sua testimonianza sul sito della CNN. Il titolo della sua testimonianza è tratto da un verso del canto ‘Amazing Grace’.
I Was Blind But Now I See