Quello che resta

2009-12-28

Dal sito di Libertà e persona una recensione del libro Quello che resta, a cura de Il Dono, che raccoglie diverse testimonianze di post-aborto.
Amori vissuti e ormai finiti che ci legavano a parenti, amici, al coniuge, li hanno conosciuti tutti quanti, e sempre se n’è scritto. Amori troppo presto recisi o svaniti, di innamorati, di amici o anche di parenti, sono il rimpianto, il ricordo o il rimosso di quasi tutti, e sempre se n’è scritto.

Quello che resta dopo un aborto, che è anche il titolo del libro edito da Vitanuova per l’associazione “Il Dono onlus” è invece un qualcosa in parte ancora sconosciuto o soffocato o rimosso, un grumo di amore e morte invivibile per troppe donne, e forse per gli stessi uomini, familiari o cerchie complici di amici.

Le non mamme parlano fra sé e sé, senza schermi e senza infingimenti nella prima parte del libro, dove non entra il giornalista, non la legge, non il comandamento né la consuetudine, ma l’anima nuda e sola di chi ha abortito. Le cronache delle varie storie sono fra loro tutte annodate dallo stesso filo conduttore: l’amore per il non bambino vive tenacemente sospeso in una specie di limbo, nel limbo degli embrioni e dei feti morti spontaneamente o fatti apposta morire. Dunque il limbo, appena sfrattato dalla dottrina cristiana cattolica ma tuttora leggibile nella prima cantica della Commedia di Dante, c’è eccome. Se si potessero ascoltare, oltre a quelli delle non mamme, anche i monologhi segreti di molti non padri, perfino di non nonni, non zii o di tanti cari amici, che hanno o non hanno consigliato l’aborto, si sentirebbe l’eco del battito di un non bambino che vive non in cielo né in terra da qualche parte, ma nel limbo annidato dentro nell’anima della sua mamma, del suo papà, di tutta la sua cerchia familiare e di amici.

Dall’insieme delle storie raccolte nel libro salta agli occhi lo stesso identico contrasto: da una parte c’è la non mamma che dice le sue ragioni, si tortura e si pente o tenta di dimenticare etc., e così il non papà e via di seguito, tutti quanti hanno ragioni importanti da svendere, dall’altra parte stanno silenziosi e impotenti l’embrione e il feto, indifesi di fronte a tanta aggressività e faciloneria dei grandi. Pena di aborto volontario: è l’unica pena di morte inflitta senza la minima difesa, e senza che nessuno guardi una volta in faccia il condannato a morte. Se c’è la nemesi storica, i processi a parti invertite si dovrebbero prima o poi celebrare, col non bambino divenuto adulto forte e magnifico avvocato di se stesso, e i vari non mamme, non papà con la cerchia di familiari e amici divenuti vecchi, brutti e rimbambiti, come già sognava nella Lettera ad un bambino mai nato Oriana Fallaci.


«Due pillole e non ci pensi più» ma non è così

2009-12-07

Un’altra terribile testimonianza dell’aborto “indolore” con la RU486

«Il mio dramma con la Ru486. Stavo morendo, ho perso tutto»
Un figlio indesiderato, una gravidanza annunciata e poi confermata da due rapidi test fai-da-te nel bagno dell’università di Barcellona, dove da qualche mese studiava con il suo fidanzato. Infine la decisione di abortire e il benevolo consiglio di un medico spagnolo, gentile quanto ingannevole: «Due pillole e non ci pensi più»... Invece Anna (nome di fantasia), 24 anni, studentessa calabrese, ripenserà per sempre a ciò che è avvenuto dal momento in cui ha assunto la Ru486, un "medicinale" che non cura niente e nessuno, nato allo scopo specifico di sopprimere la vita al suo esordio. Ma che quel giorno rischiò di uccidere la giovane madre, oltre a quel feto che oggi, mentre piange, chiama «figlio».
«Ero partita dall’Università della Calabria per il "Progetto Erasmus" – racconta incontrandoci sul Ponte Pietro Bucci dell’ateneo, i segni di una sofferenza indelebile sul volto e nel tremore della voce –. Studiavo e tuttora studio a Cosenza, allora ero una ragazza felice e piena di propositi per il futuro, anche perché presto ho conosciuto il mio fidanzato, con cui poi sarei partita per Barcellona...». Gli occhi neri si muovono rapidi e insicuri, offuscati da un’ombra di dolore, ciò che resta del suo viaggio in quello che lei chiama «il tunnel oscuro» e dal quale ancora non sa uscire.
La sua storia è di quelle che iniziano fin troppo bene, con un bando proposto agli studenti più meritevoli per uno scambio culturale e formativo in una delle città europee, il brillante superamento della selezione assieme al fidanzato (che chiameremo Roberto), e la partenza per la metropoli catalana. «Doveva essere un’esperienza indimenticabile», ricorda senza sorridere. Anna, che nel suo soggiorno spagnolo condivide l’alloggio con due compagne straniere, un giorno si accorge, calendario alla mano, che i conti non tornano: «All’inizio pensavo che il mio ritardo derivasse da alcuni antibiotici che avevo assunto per una brutta influenza – prosegue –, poi cominciai a temere di essere rimasta incinta e in una farmacia del centro comprai il test di gravidanza». La vita di suo figlio, annunciata in quel bagno, le cadde addosso come la peggiore delle notizie. «Lo dissi a Roberto e sperammo entrambi in un errore, ma anche il secondo test diede lo stesso risultato. Da allora litigammo furiosamente...».
La vita di Anna iniziava a frantumarsi, e il primo pezzo che se ne andava era proprio l’amore: da una parte c’era Roberto, deciso a tenere quel figlio e a prendersi le sue responsabilità di padre nonostante i suoi 24 anni e la mancanza di un lavoro, dall’altra le paure della giovane, il timore dei genitori, il terrore della solitudine. E sola rimane davvero, Anna, accompagnata da un’amica spagnola nella struttura sanitaria in cui i medici le spiegano che «la Spagna è molto più avanti dell’Italia e qui c’è la libertà di abortire con semplicità». Sola è anche quando i camici bianchi le raccontano che non avrà alcun problema, che «basterà assumere due pillole, una per bloccare la gravidanza e l’altra per espellere il feto, niente di complicato, al massimo quel piccolo fastidio come nelle giornate del ciclo...». Sola quando imbocca il tunnel senza nemmeno far sapere a Roberto che tra poche ore non sarà più padre.
Un mare di carte da compilare per dichiarare che era stata informata di tutte le conseguenze cui andava incontro, un colloquio frettoloso con un’assistente sociale, una prescrizione medica e giù le pillole. «Eravamo in tante - ricorda tormentandosi per tutte - e ci chiamavano per nome e cognome, senza alcun rispetto della privacy. Quando toccò a me, nessuno in realtà mi disse nulla del pericolo cui andavo incontro, così firmai e presi la prima pillola, che poi scoprii chiamarsi Mifeprex. Due giorni dopo ritornai in ospedale, come mi aveva detto il medico, e presi l’altra pillola, il Misoprostol. È stato tutto molto facile». Facile come bere quel bicchier d’acqua con cui le manda giù.
Ma il dramma deve solo cominciare. «La mattina seguente ero sola in appartamento, le mie due amiche erano uscite, il mio fidanzato neanche sapeva che stavo già mettendo in pratica il mio intento abortivo. Iniziai ad avere dolori lancinanti all’addome, a fare avanti e indietro dal bagno con una diarrea incontrollabile e una nausea terribile. Pensavo di morire. Caddi in uno stato di semi incoscienza e dopo alcune ore mi svegliai in un bagno di sangue. L’emorragia era inarrestabile, continuavo a perdere sangue, sentivo la vita uscire dal mio corpo, non ero mai stata tanto male. Chiamai aiuto e tornai in ospedale, dove mi fecero una nuova ecografia ed ebbi la notizia che l’aborto era avvenuto "con successo". In realtà lì si celebrò il cuore vero del mio dramma. Le mie convinzioni ad una ad una sono tutte crollate, sono caduta in uno stato di depressione terribile, piango sempre e fatico a riprendere forza. Ora mi sento in colpa verso il mio fidanzato, che peraltro ho anche perso, e soprattutto verso quella creatura. Devo cominciare a ricostruire tutta la mia vita, ma so che questo ricordo non mi abbandonerà».
Era una ragazza come tante, Anna, con quella voglia di vivere a volte irrefrenabile, quella convinzione di avere il mondo in tasca e le certezze nel cuore, decisa a fare di testa sua. «Anche in quell’occasione pensavo di aver scelto la via facile, così sui giornali ti presentano la Ru486, credevo fosse una conquista della scienza, invece la mia vita è finita con quella pillola, che ti dà l’illusione di non abortire mentre in realtà rischia di uccidere te oltre a tuo figlio...».
Ce la farà, Anna, la sua rinascita comincia da qui, dal desiderio di raccontare la sua storia, rimasta sconosciuta anche ai genitori: «Non voglio che altre ragazze imbocchino la mia strada, devono sapere a cosa si va incontro. Vorrei dire solo questo: attente alle false libertà e soprattutto non decidete da sole, la vita, sin dal suo sbocciare, anche nel dramma si può trasformare in un dono. Io me ne sono accorta troppo tardi, ma per voi c’è ancora tempo».


Risarcimento... terapeutico?

2009-12-03

È proprio vero che la realtà supera ogni immaginazione!



Il risarcimento milionario per quell`aborto "sbagliato" a Milano
E IL GEMELLO DOWN NON VALE UN EURO?
di Chiara Mantovani

Leggo l’agenzia di stampa e, nonostante mi reputi abituata a sentirne di tutti i colori, riesco ancora a sbalordire. Qualcosa nella ragionevolezza si è inceppato.

(ANSA) - MILANO, 30 NOV - La donna che nel giugno 2007, incinta di due gemelli, per un errore nell’aborto selettivo all’ospedale San Paolo di Milano subì una interruzione di gravidanza sul feto sano invece che su quello affetto da sindrome di Down ha chiesto un risarcimento di un milione di euro.
Ad avanzare la richiesta di condanna al risarcimento dei tre medici imputati nel processo in corso a Milano è stato il legale della donna e del marito, l’avvocato Davide Toscani. "Si tratta della perdita di una vita umana - ha spiegato il legale -, dell’impossibilità di questa coppia di avere in futuro una nuova gravidanza per il trauma subito". Nessuna condanna o risarcimento, ha aggiunto Toscani, "darà mai ristoro a questa coppia".

Intanto dico subito che non si è trattato della perdita di una vita umana, ma di due. Infatti i bambini abortiti sono due. A meno di voler sostenere che una, quella sana, era vita umana e l’altra, quella malata, no. Cioè a dire che un malato non è un appartenente alla famiglia umana. E tutti i bimbi affetti da sindrome di Down non sono umani?
A meno di voler sostenere che una aveva diritto di nascere e l’altra no. Dunque i portatori di trisomia 21 che sono al mondo ci stanno da clandestini? Ci sono ma non dovrebbero esserci? Per loro il foglio di rimpatrio significa rispedirli al mittente, cioè a quel caso o a quel Dio che li ha imbarcati sulla fragile imbarcazione di un utero materno?
Sono sbalordita: all’epoca della notizia mi ero commossa, avevo pensato al dolore di una mamma e di un papà che immaginavo sconvolti per aver toccato con mano quanto la pretesa del figlio perfetto si fosse tramutata in tragedia reale. Sarà difficile percepire l’ingiustizia di un aborto selettivo quando tutto “va bene”, quando poi stringi tra le braccia un figlio come tu lo volevi, lo coccoli, lo nutri, lo proteggi e lui ti guarda e ti sorride come solo un figlio fa. La mente allontana il pensiero del costo che hai dovuto pagare (anzi, siamo franchi: che qualcun altro ha pagato). Salvo poi lasciarsi come Pollicino le briciole di un dolore che sa di rimorso per tutta la vita. Ma questa è una altra storia, vergognosamente negata da chi vede nell’aborto un problema tecnico da risolvere con una operazione o due pilloline.
Ma in un caso come questo, no. La realtà mette di fronte all’evidenza: erano uguali ma uno era voluto, l’altro no. Non posso credere che la reazione sia: accidenti a quei medici che hanno sbagliato! Tutta colpa loro! Loro si saranno anche sbagliati, e forse potevano essere ancora più scrupolosi, ma la medicina non è a prova di errore, anche se non c’è scritto in questi termini nei moduli di consenso informato. A prova di errore dovrebbe essere l’amore: per andare sul sicuro si ama tutti, è così che non ci si sbaglia.
Nessun risarcimento sarà adeguato alla perdita di una vita umana? E quale risarcimento è un milione di euro? Una cifra “simbolica”? Ma cinquecento per due o un milione per una, perché l’altra non valeva niente?
Caspita, come galoppa l’inflazione.

http://www.piuvoce.net/newsite/fuoricampo.php?id=76