L’assurdo silenzio che circonda il postaborto

2012-09-20

Intervista a Cinzia Baccaglini, psicologa e psicoterapeuta con una particolare competenza ed esperienza nell’ambito della sofferenza post-abortiva.

1) D.ssa Baccaglini, la sua esperienza professionale e la sua esperienza di vita quotidiana si completano a vicenda nell’armonia del dare, dell’ascoltare, del pregare. La forza di aiutare tante donne nel dolore provocato da un aborto volontario, la trova in Dio o nella scienza, oppure in entrambe?
Inevitabilmente in entrambe. Non avrei mai pensato fino a qualche anno fa di entrare in questo campo della sofferenza, del tabù della morte, della bara toccata quotidianamente, di una bara che non si vede ma che è dentro alle persone coinvolte in uno o più aborti volontari. E gli strumenti per lenire questa sofferenza arrivano certamente dalle scienze psicologiche, dagli studi fatti. Come sempre però possedere degli strumenti non è garanzia né di saperli usare né di avere la forza di continuare a farlo. Quindi se da un lato c’è la scienza, dall’altro il modo di usarli, la costanza di usarli, la speranza da dare a queste persone mi arriva da un orizzonte più alto che inevitabilmente non schiacci anche me. Difficilmente di fronte ad un bimbo abortito le persone coinvolte sentono che questo bimbo non fosse niente , è andato in niente, nel nulla, è sparito e quindi inevitabilmente pensano che sia da qualche parte, nel Cielo, nel luogo nascosto per eccellenza non necessariamente in senso cattolico apostolico romano. Ma continuare a dare speranza, ascolto uno lo fa se si sente ascoltato, se ha in chi riporre una speranza altra e quando si tratta di avere a che fare con la morte questo ascolto e questa speranza è Gesù Cristo che si è incarnato per ognuno di noi, che si è fatto embrione, per cui così come in ognuno di noi c’è l’immagine e la somiglianza di Cristo anche se coperta, nascosta, c’è anche in ognuno di quei bimbi concepiti. Lui che è riuscito a nascere nonostante tutte le sue difficoltà e le difficoltà dei suoi genitori, ha condiviso con noi la vita terrena, ha patito, è stato ucciso per la Verità, per riscattarci ed è Risorto, ha vinto la morte. Certo una visione del trascendente non imposta alle persone che incontro ma vissuta e semplicemente proposta con la libertà da parte di tutti di accoglierla o meno.Il come e il perché lo faccio sta tutto qui.

2) La sindrome post-aborto conduce le donne e, spesso, anche gli uomini-partner, in un vortice emotivo molto forte. Quale filo conduttore, si potrebbe dire, le ricollega tutte le une alle altre?
Il fatto che l’aborto non è solo un intervento chirurgico o chimico. È la separazione delle nostre sfere fisiche, psichiche, spirituali. È una ferita profonda del non amare e non sentirsi amati e quando questo verme intacca profondamente le relazioni intrapsichiche e verso l’esterno continua a produrre divisioni, separazioni, malessere sia nella vita personale che nella vita di relazioni come un vortice che trascina verso la morte, la distruzione, il senso di colpa, l’inquietudine. Quel bimbo abortito se non riconosciuto come volto umano del concepito, di quel figlio, con quello che gli è stato fatto continua ad essere un bambino fantasma, un bambino persecutorio, un malessere magari non riconosciuto subito di una assenza-presente ma che si riverbera nella vita di tutti i giorni.

3) Ci può ricordare qualche caso particolare, qualche testimonianza che le è rimasta profondamente nell'anima?
Tutti i miei ‘casi’ sono particolari, singolari poiché sono tutte persone che a vario modo soffrono per questo. Questo è un altro punto fondamentale. Quando qualcuno mi regala la sua storia per essere aiutato diventa per me un compagno di viaggio di questa umanità sofferente. Posso, in tutta umiltà dire che ricordo tutti i nomi, i visi e le storie delle persone che ho incontrato in questo viaggio. Ma capisco che forse una testimonianza può essere d’aiuto alla comprensione di ciò che sto dicendo. Per cui lascio a una di loro il racconto.
Giulia ha solo 27 anni, ma alle spalle della sua breve vita ha già due aborti volontari, effettuati a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, il primo a 17 ed il secondo a 18 anni, ed una depressione scatenata da queste scelte che le ha minato progressivamente le relazioni interpersonali, il lavoro ed il corpo fino a portarla, più volte, sull’orlo del suicidio. È stato per anni pieno di brufoli il bel viso di Giulia: come quello di un adolescente anche quando adolescente non lo era più. I suoi capelli neri e lucidi si erano diradati innaturalmente. La sua mente faceva  irrigidire il corpo quando si trattava di accettare baci ed abbracci. E un bel giorno persino le sue braccia avevano pensato di tradirla rifiutandosi di funzionare anche per gesti semplici come fare il caffè. Non si affrettino i ben pensanti ad attribuire una sindrome post aborto così profonda alla morale ecclesiale, perché all’epoca Giulia non frequentava la Chiesa. Ed era così lontana dal pensare che una cosa legale come l’aborto potesse avere effetti tanto devastanti nel vissuto di una donna che ci ha messo anni a capire che l’origine del suo male oscuro era proprio lì, in quel “grumo di cellule”, come le ripeteva chi aveva vicino, che per alcuni mesi le erano cresciute in grembo e che ad un certo punto, senza avere piena coscienza di quanto si accingeva a fare, ha acconsentito a far strappare da sé. Oggi sta bene, e i suoi occhi sono tornati a brillare di quella solarità connaturale al suo carattere semplice e dolce. Ma perché le cose potessero andare a posto c’è stato bisogno di un lungo lavoro. Non per dimenticare e liberarsi di ingiustificati sensi di colpa: la ricetta dei politicamente corretti. Ma per ammettere la gravità del gesto commesso, elaborarlo e rendersi conto che ad essere sbagliata non era lei, ma la scelta fatta. Una scelta avventata per impedire la quale praticamente nessuno allora intervenne, strutture pubbliche comprese (forse per non influenzare l’esercizio della “libertà”? Per routine?), e che se fosse stata informata, emotivamente non così sotto pressione, sostenuta psicologicamente, indirizzata a strutture di supporto, se avesse saputo che il bambino si poteva lasciare anonimamente in Ospedale, se, se, se, “non avrei probabilmente fatto”, dice. Tempi stretti e anche una innegabile superficialità da parte di diversi operatori incontrati nel cammino, l’hanno portata così dritta a quella che considera “l’azione più grave che potessi fare nella mia vita”. Per Giulia è ancora oggi doloroso ricordare il Calvario di cui ella stessa è stata l’artefice, ma accetta di raccontare anche ad un giornale per “infrangere l’assurdo silenzio che attornia il dolore delle donne che hanno effettuato un’interruzione volontaria di gravidanza – spiega – e che la solitudine rende ancora più profondo. Le mamme, gli operatori devono sapere cosa vuole dire abortire, e se la mia testimonianza può servire ad impedire altri drammi non mi tiro certo indietro”. Tanto più che il vissuto di Giulia non è né più grave né molto diverso da quello di tante altre donne. Ed eccola la storia di questa ragazza, dura e a tratti quasi incredibile per la distanza tra quanto si afferma verbalmente e ciò che in realtà accade nell’iter delle donne verso l’aborto e nel cuore di chi si decide di esercitare questo “diritto” conquista della modernità. “La prima volta che sono rimasta incinta avevo 17 anni – racconta – Stavo con un ragazzo che in verità ero in procinto di lasciare perché violento. Non mi sono accorta subito del mio stato, perché non avevo il ciclo regolare ed era per me normale saltare un mese. Del resto non avevo notato nulla di particolare se non che mangiavo solo patate perché non mi andava altro. Poi un giorno vomitai violentemente per un odore intenso. Solo allora mi venne il dubbio e con immensa vergogna andai in farmacia a chiedere il test di gravidanza. Subito mi orientai verso l’aborto: perché ero molto giovane, non volevo che quel ragazzo fosse il padre dei miei figli e pensavo che una cosa legale non potesse essere sbagliata”. Quindi l’incontro con operatore del Consultorio che, responsabilmente, volle che Giulia, allora minorenne, parlasse prima coi suoi genitori (nonostante per la legge non sia indispensabile). “Mia madre fu subito d’accordo mentre ci volle di più per convincere mio padre. I tempi erano tuttavia stretti perché ero già allo scadere del terzo mese, il limite posto dalla legge italiana per l’aborto. In Consultorio, allora, mi fissarono d’urgenza l’appuntamento in Ospedale”. Nessuno psicologo né incontrato né proposto; nessuna delucidazione pratica sull’intervento; nessuno che le abbia citato l’esistenza del Centro di aiuto alla vita. Tempo trascorso tra la scoperta della  gravidanza e l’intervento: 3 – 4 giorni. Una bomba emotiva. Quindi l’arrivo in Ospedale: era la mattina dell’11 settembre 2001: “Lo stesso momento in cui a New York cadevano le Torri Gemelle - evidenzia Giulia - Una singolare coincidenza che ha reso ancora più drammatico il ricordo di quel giorno”. Che peraltro non ha poi mai potuto fare a meno di vivere come anniversario, come nel caso della Pasqua per il secondo aborto, con tutto il dramma legato al rinnovo periodico del dolore. “In Ospedale parlai prima con una donna che penso fosse un medico – ricorda ancora provata – Mi trattava sgarbatamente, forse perché pensava che stessi per fare una cosa orrenda. Ma, mi chiedo oggi, perché non me lo disse e non fece nulla per impedirmelo? Io ero spaventatissima e confusa per l’intrecciarsi di paura ed emozione, anche perché sentivo di essermi già affezionata alla creaturina che cresceva dentro di me. Ebbi solo la forza di chiedere cosa mi avrebbero fatto durante l’operazione, ma ricevetti solo una risposta superficiale in tono sbrigativo, quasi mi stessi impicciando di ciò che non mi competeva. Ho appreso solo qualche mese fa, guardando su Internet, come si effettua un aborto nel primo trimestre, ovvero dell’aspirazione a pezzi del feto. Dei momenti successivi ho rimosso tutto. Mi  hanno solo detto che non ho fatto altro che piangere. Nelle settimane a seguire, tuttavia, non notai nulla di cambiato in me”. Un dato in verità non strano, in quanto la sindrome post aborto matura non nel breve ma nel lungo periodo. “Pochi mesi dopo rimasi ancora incinta, di un altro ragazzo – prosegue il racconto – Mi accorsi ancora tardi del mio stato, perché avevo avuto comunque una sorta di ciclo”. Ed ecco la nuova avventura al Consultorio.
“Mi fissarono  l’appuntamento a ora di pranzo, ma quando andai la dottoressa mi disse che era un brutto momento e che avremmo dovuto fare presto perché doveva uscire per la pausa. Mi toccò la pancia e mi disse che effettivamente ero incinta. Quindi mi indirizzò ad una clinica convenzionata per gli esami in vista dell’aborto. Nessuna ecografia, nessuno psicologo, nessun tentativo di dissuadermi”. Poi l’incredibile: “Al Consultorio non mi fecero fretta perché senza ecografia non mi avevano detto di quale mese ero. Quando arrivai in clinica ebbi dunque la sorpresa di sapere che mi trovavo al quarto mese e che non potevo più abortire. Mi misi a piangere e il medico mi disse che c’era comunque una soluzione: si poteva andare in Nord Europa dove gli aborti si praticano a pagamento fino al quinto mese, e che avrebbero provveduto a tutto loro. Viaggio aereo e alloggio compreso…il tutto a meno di un migliaio di euro. Avevo un’ora di tempo per decidere. Andai in cortile da sola e piansi ininterrottamente. Poi scelsi di procedere. Anche in questo caso nessun percorso alternativo suggerito dagli operatori e nessuna spiegazione sul metodo dell’aborto che, nel secondo trimestre, è un parto prematuro pilotato che per me fu in anestesia totale”. “Nella clinica estera nessuno parlava la mia lingua e si comunicava per gesti – ricorda ancora carica di dolore Giulia – Quando tornai ero così provata  che mi erano cadute ciocche intere di capelli”. Mese dopo mese, poi l’arrivo della depressione, con incubi, progressiva chiusura in sé stessa, pianti continui. “Colori, odori, voci, c’erano mille cose che vivevo con ansia e dolore – dice – Poi ho capito che mi rimandavano agli aborti, e sono arrivata a collegare, anche per i sogni ricorrenti, che tutto il mio male derivava di lì. Comparirono anche pensieri terribili come: ‘ho ucciso e ora devo morire io’”. Poi il lieto fine, con la scelta di aprirsi ad un sacerdote e, poi, l’approdo ad una psicoterapia per sindrome post aborto: “Mi hanno fatto dare un nome a quei piccoli di cui sono stata anche se per poco madre. Non li ho mai visti ma sento che il primo era una femminuccia e il secondo un maschietto. Passo dopo passo ho imparato a convivere con il dolore senza che questo mi schiacciasse. Solo ammettere la gravità di quanto accaduto mi ha dato pace e ha riaperto i rapporti che prima rifuggivo, anche nei confronti dei bambini”. E conclude: “Non si può mascherare la realtà dell’aborto sostenendo che un bimbo nel grembo di una donna non è nessuno e che quindi si può liberamente buttare. Una mamma sa d’istinto che non è così, e non c’è ideologia che possa nascondere questa verità che emerge dal profondo dell’anima da ogni parte, come un fiume in piena, al di là della propria formazione e dei propri pensieri”.

La psicologa e psicoterapeuta Cinzia Baccaglini
4) Nelle sue relazioni, lei parla spesso anche delle famiglie, dei nonni, dei fratelli, di questi bambini che lei, giustamente, definisce “concepiti uccisi”. Quando la famiglia è a conoscenza dell’aborto come reagisce?
È difficile dare una descrizione univoca perché la reazione all’evento aborto è differente da persona a persona e da famiglia a famiglia. Anche sulla conoscenza ci sarebbe da dire molto. C’è chi sa, chi sa e fa finta di non sapere, chi non sa ma intuisce e chi conosce tutto ma non ha il coraggio di parlare. Per cui dovrò dare una descrizione generale. Noi tutti pensiamo all’aborto come a un fatto privato, una decisione che la donna assume in prima persona su di sé, e si delega l’uomo in una posizione marginale nel processo decisionale, comunque non determinante (Dogliotti, 1995).
Molte delle decisioni vengono prese senza che il partner sappia o con un suo atteggiamento pilatesco, ma per il vissuto del padre non è indifferente se è stato coinvolto o no, cioè se ha dovuto cedere alla decisione della sua compagna. Il sentimento dominante sarà quello di una profonda impotenza di fronte alla decisione della madre. Questo causerà frizioni intollerabili nella loro vita di coppia, portandoli spesso ad una separazione. E anche un senso di colpevolezza per non aver potuto impedire l’aborto. E, da ultimo, un senso di perdita di responsabilità, perché comunque il ‘padre’ non ha più niente da dire nel campo del concepimento e della salvaguardia del bimbo prima della nascita. Se l’aborto viene fatto alla presenza delle difficoltà a rendersi coppia relazionalmente ed emotivamente, se questa decisione intacca il ‘narcisismo di coppia’, se dopo l’aborto la mamma si chiude a riccio rivendicando attraverso l’isolamento l’essere stata costretta perché non aiutata o al contrario affermando che era solo affare suo aumentano esponenzialmente questi sentimenti. Un aspetto molto importante è se il padre si vive come maschio che trasmette il cognome, che porta avanti la generazione, se sente il ruolo del figlio come trasmettitore familiare che non ha potuto realizzare, qui spesso accade l’implosione della famiglia. Quando si parla di sofferenza postabortiva spesso si parla solo delle donne e a questi uomini chi ci pensa?
Vi sono pochi studi riguardanti gli altri figli già in vita e quelli successivi all’aborto.Su questo argomento viene incontro solo l’esperienza clinica, ma è abbastanza facile immaginare cosa deve pensare un figlio dei propri genitori quando viene a sapere che uno dei suoi fratelli o sorelle è stato ucciso da un medico su domanda esplicita della loro madre, con il consenso del padre. Il sintomo prevalente in questi bambini è un grande senso di insicurezza; una perdita di fiducia, accompagnata, talvolta, da senso di paura, d’avversione e persino di odio verso i genitori giudicati capaci di uccidere anche loro, dal momento che hanno osato uccidere un fratello o una sorella. I bimbi sanno che è successo qualcosa, che qualcuno è morto perché sono vivi loro, lo capiscono dall’ansia della madre se sono figli successivi, dai pianti nascosti se precedenti, capiscono che parte della responsabilità è loro, loro creavano problemi o sono nati per rimpiazzare, spesso infatti donne che hanno abortito cercano subito un altro bambino. Si sono evidenziati per i bimbi nati dopo un aborto aumenti di aggressività, abusi sessuali, abbandoni e queste fantasie di abbandono ci sono anche nei bimbi nati prima .Altro tipo di fantasia è quella di avere altri genitori. Spesso le domande che fanno sono molto semplici, dirette ma tragiche tipo : ‘Perché io sì e lui no? Potevo esserci io al suo posto’. A volte gli elementi arcaici della relazione primaria con la madre influenzano i sopravvissuti fino al punto estremo ‘non ho mai chiesto di venire al mondo, siete stati voi a mettermici quindi non è stata una libera scelta mia, l'unica cosa che mi resta da fare per riconquistare la mia autonomia è farmi fuori, suicidarmi, perdermi’. Un’altra riflessione da fare è a questo punto sull’aumento dei suicidi infantili e adolescenziali, gli abusi sessuali, l'aumento di giovani che si drogano, che si sballano e che non a caso si dice hanno perso il ‘senso della vita’. (Sindrome del sopravvissuto e la sindrome di Caino) E, infine, anche gli altri membri della famiglia, e in modo particolare i nonni. Questi ultimi vedono la discendenza più lontana, i loro nipotini uccisi dai loro stessi figli. Quando si vede l’affetto particolare che molti nonni hanno per i loro nipoti, non occorre essere psicologo per rendersi conto di cosa devono sentire nel proprio intimo i nonni di un bambino abortito. Ma c’è un altro aspetto che da psicologa mi preoccupa: sempre più nella mia esperienza clinica dove c’è una mamma che uccide il proprio figlio c’è una nonna materna che ha fatto la stessa cosa con un figlio/a, quindi con una sorella o fratello della mamma. Forse una normalizzazione dei comportamenti culturali, forse la perdita del senso della preziosità della vita che si tramanda: se l’ha fatto mia madre perché non io? . Questo emerge anche a dispetto della conoscenza che è solo posteriore all'aborto e dove magari prima c’è stata un’azione di estrema pressione all'aborto stesso, con ricatti affettivi allucinanti. È come ci fosse una frattura generazionale e si può immaginare anche per altri figli e per le relazioni significative. Diventa realmente un problema di sanità mentale a livello sociale.

5) Dove finiscono i corpicini martoriati di questi bambini, nel nostro paese ed all'estero?
Anche su questo bisogna fare dei distinguo. Per quanto riguarda l’aborto chimico sinceramente i luoghi possono essere diversificati a secondo di dove arriva l’espulsione del piccolo, ivi compresi i water. Ricordo che una ragazza mi disse : ‘si rende conto, dottoressa, che anche i topi vivono nelle fogne ma il mio bimbo no’. Ho avuto anche reazioni istintive di fronte ad aborto da RU486 in cui non solo hanno tirato l’acqua ma essendo successo in cucina la mamma ha raccolto ciò che ha perso e lo è andata a seppellire in cimitero. Per quanto riguarda quello chirurgico solitamente nel primo trimestre questi corpicini vengono raccolti nei rifiuti ospedalieri e inviati agli inceneritori, nel secondo trimestre l’obbligo di legge sarebbe quello di seppellirli e a volte in alcuni cimiteri si possono vedere delle piccole lapidi con scritto feto poiché a quel bimbo non è riconosciuto nemmeno un nome da parte dei genitori. Alcune associazioni come ‘Difendere la vita con Maria’ ed alcune istituzioni come nella regione Lombardia si stanno occupando di seppellire degnamente questi resti mortali. Un’altra cosa che non viene detta è che i genitori possono, attraverso una procedura regolamentata da una circolare ministeriale, chiedere il corpo e la normale sepoltura dei loro bimbi. Non conosco tutte le procedure estere che variano di nazione in nazione. Ricordo solo qualche scandalo giornalistico di qualche anno fa quando si scoprì che questi resti venivano utilizzati per aumentare il valore proteico dei mangimi per galline e in un altro caso per utilizzarli per l’asfalto delle strade.

6) La violazione della vita nascente divora come un verme le coscienze degli uomini. Santa Faustina, Madre Teresa di Calcutta, Papa Giovanni Paolo II, Papa Benedetto XVI, Padre Pio, sono voce del Signore contro questo orribile delitto della società moderna. Come possiamo riprendere le redini della giustizia, come possiamo convincere i governanti a fermare questa guerra contro gli innocenti. L'Italia “appare” come un paese cattolico ma, credo, fondamentalmente non lo è. Il Sudamerica riesce ancora a tamponare questo problema. Come possiamo far capire “le verità sull'aborto” senza essere additati come bigotti che non hanno capito che il mondo sta cambiando. Satana è sempre in agguato?
Questo è un discorso molto delicato da fare. La prima cosa riguarda il comportamento dei cattolici. Ricordo quando nell’Evangelium vitae Giovanni Paolo II diceva: “Si deve cominciare dal rinnovare la cultura della vita all'interno delle stesse comunità cristiane”. “Troppo spesso – spiega il Papa -  i credenti e, - aggiunge - perfino quanti partecipano attivamente alla vita ecclesiale, - quindi non solo i credenti, ma, diciamo, i praticanti - cadono in una sorta di dissociazione tra la fede cristiana e le sue esigenze etiche a riguardo della vita” “Dobbiamo allora interrogarci, - sono sempre le parole del Papa, e io le prendo così, perché voglio interrogarmi con voi - con grande lucidità e coraggio, su quale cultura della vita sia oggi diffusa tra i singoli cristiani, le famiglie, i gruppi e le comunità delle nostre Diocesi”. “Con altrettanta chiarezza e decisione, dobbiamo individuare quali passi siamo chiamati a compiere per servire la vita secondo la pienezza della sua verità”.
Un discorso diverso riguarda il fatto che satana stia utilizzando tutti i mezzi a sua disposizione per confondere la verità con la menzogna con l’utilizzo di parole dette per non dire quello che si ha paura di dire, l’utilizzo di logiche del minor male anziché del maggior bene per cui si passa dal male minore al Maligno maggiore, il compromesso a livello culturale e legislativo, la divisione tra corpo, psiche, spirito; tra sessualità e procreazione attraverso la contraccezione; tra procreazione e corporeità attraverso le tecniche di fecondazione extracorporea; tra contraccezione e aborto attraverso le varie pillole spacciate come anticoncezionali ma abortive; tra cercare di far notare che esistono ‘parti buone’ in una determinata legge pur di far passare che quella legge tutto sommato è buona, dividendo le forze anche all’interno dei prolife obnubilando così sempre più le coscienze e portandole ad una diluizione, dispersione dei contenuti e delle forze per arrivare alla fine ad una inversione.

7) Padre Pio, come lei ben ricorda in un suo scritto, diceva che Dio potrebbe darci la Pace e la cessazione di ogni guerra se per un solo giorno non si avverassero peccati contro la vita nascente.
Desideriamo, utopisticamente, far capire ai lettori che la legge 194 votata dalla maggioranza degli italiani 32 anni fa è stata un bluff. Nella foga del post ’68 ci hanno raccontato che abortire non era un crimine e che nei primi novanta giorni di gravidanza il bambino non era un essere vivente ma un “grumo di sangue” senza vita. Al di là dei dati scientifici che, in breve, vorrà fornirci su tale questione, è giusto forse far capire che se anche si trattasse di un “grumo di sangue”, quel sangue, un giorno, avrà un volto ed una vita da spendere su questa terra come è stato per ognuno di noi. La donna è davvero libera di fare del suo corpo quello che vuole, come dicevano le femministe negli anni ’60?
Ci vorrebbero pagine e pagine per descrivere la meraviglia del nascere di una nuova vita umana e il tempo della contemplazione di quel concepimento che in poche righe non può essere fatto. Basta guardare un comune filmato su internet sullo sviluppo intrauterino di un bimbo. Mi limito a due provocazioni. Si è mai visto nascere da una donna e da uomo un macaco? Se non è nulla quel grumo di cellule e sangue, lasciamolo lì 9 mesi e poi vediamo.Dal nulla nasce nulla. Ironicamente un amico dice : ‘anche io sono un cumulo di cellule e sangue, anzi sono un post embrione e una pre-salma’. Per quanto riguarda la libertà delle donne. Anche qui servirebbe una riflessione più lunga sul fatto che non c’è libertà se non c’è verità e se non c’è né responsabilità né giustizia. Non è la libertà che ci fa veri, è la verità che ci fa liberi. E la semplice verità è che quel piccolo è un altro da me, non è un mio possesso e oggetto di cui posso disporre come voglio e come mi pare, quando mi pare, perché mi pare. La libertà non è una libertà di, è una libertà per. Ma qui bisognerebbe aprire una riflessione molto profonda e che ha bisogno di molto tempo e competenze filosofiche ed antropologiche.Solo una domanda dalla cui risposta dipende il nostro operare: mi sento io responsabile degli altri, dei comportamenti degli altri, mi sento responsabile della responsabilità degli altri?

8) Nel libro di Pier Giorgio Liverani “Aborto anno uno”, scritto ad una anno dall'entrata in vigore della legge 194, l’allora direttore di Avvenire parlava ampiamente del fatto che le motivazioni della stessa legge erano state, già allora, ampiamente disattese.  L'aborto doveva essere eseguito solo in casi eccezionali e le donne dovevano essere ascoltate per condurle sulla via del proseguimento della gravidanza piuttosto che dell’aborto. In questo, i consultori familiari hanno avuto un ruolo fondamentale ma la maggior parte delle donne dicono, a 29 anni da quel libro, che non sono state ben informate ed ascoltate.
L'Italia è davvero così pigra nel capire i propri errori?
La logica intrinseca della legge 194 è fatta in modo per rendere libero l’aborto. Tanto è vero che in tutti questi anni non solo non è stata toccata come un tabù, ma quando si parla di parti preventive ci si rende conto che è strutturata in modo tale che non siano né obbligatorie né obbliganti. La difficoltà di inserire percorsi alternativi, colloqui con associazioni pro-life, mettere volantini per aiutare le donne che si trovano ad aspettare un bimbo. La realtà è che non si fanno colloqui anamnestici dal punto di vista psicologico, che non si danno informazioni di ciò che significa abortire né del come si fa né di ciò che succede dopo. Ma è la logica interna di quella legge a permetterlo. Per quanto riguarda i consultori, essi sono una parte della realtà dell’aborto. E come sempre dipende dalle persone che li compongono. Qualcuno vuole distinguere i luoghi del colloquio da quello della certificazione: può essere una via ma non si certifica solo nei consultori. Qualcuno vorrebbe i volontari per la vita all’interno dei consultori ma anche questo non è sufficiente se la logica è: ‘ci hanno provato anche loro a fare i colloqui e non ci sono riusciti’. Bisognerebbe chiedere ai consultori quanti bimbi hanno salvato. Pertanto penso che bisognerebbe riportare il discorso non tanto alla formazione specifica di quel luogo ma alla sensibilità condivisa sul volto umano di quel concepito di tutte le persone che operano. Sarebbe un giorno davvero speciale se un giorno non ci fossero più aborti in Italia e non ci fosse più una legge che li permetta mettendo a disposizione soldi dei cittadini, strutture, medici in uno Stato che uccide i propri figli, il proprio futuro.

9) Per concludere vorrei che l'intervista si chiudesse con un messaggio di speranza e di aiuto nei confronti di chi, in questo momento, ha intenzione di affrontare l'interruzione di gravidanza.
Se si vive una gravidanza non attesa o indesiderata non si è soli. In tutte le città ci sono persone, realtà che possono aiutare concretamente, a seconda della situazione che si vive, nell’accompagnare questa mamma, questo bimbo, questa famiglia. Certo magari, come in molte cose della vita, non sarà tutto facile , sarà sicuramente meno difficile. Quando nel dolore si hanno compagni che lo condividono l’animo può superare molte sofferenze. E se questo comporta la gioia di vedere un bimbo tra le braccia di una mamma, una gioia per questa famiglia è un seme di speranza per il nostro futuro. Penso che questo coraggio di dire sì alla vita sia una speranza per tutti piuttosto che rimanere con la ferita di un bimbo ucciso dentro il proprio corpo, la propria psiche, la propria spiritualità che di conseguenza impoverisce tutti noi.


«Mamma ha abortito»: come ho chiesto scusa ai miei figli

2012-09-08

di Kelly Clinger

Queste sono parole che non avrei mai pensato di dire ai miei figli. In realtà, non gliele avrei mai dette. Non volevo spiegare che cosa sia l’aborto, né tantomeno dir loro che la loro madre aveva fatto una scelta così terribile e deplorevole... DUE VOLTE.
Quando mi hanno chiesto di essere portavoce per la campagna “Silent No More Awareness”, verso la fine del 2010, volevano essere sicuri che i miei familiari conoscessero il mio passato prima che cominciassi a parlarne andando in giro per il paese. Naturalmente mio marito conosceva la maggior parte dei dettagli (anche se col passare del tempo vengono in superficie nuove cose), ma come avrei potuto dire ai miei figli che avevo ucciso due dei loro fratelli?
Mia figlia aveva 14 anni e mio figlio ne aveva 8 all’epoca. Io non volevo che fossero delusi da me.
Non volevo che mi odiassero. Non volevo che provassero per me le stesse come che provavo io.
Ho fatto sedere i ragazzi sul divano e ho fatto un respiro profondo. Ho chiesto loro se sapevano cosa fosse l’aborto. Mia figlia disse di aver già sentito quella parola, ma non era sicura di ciò che fosse. Mio figlio non ne sapeva niente. Quando ho cominciato a spiegarlo, l’orrore ha riempito i loro volti. «Come si può fare questo?» chiese mio figlio. Ha continuato a fare domande, ma il silenzio di mia figlia mi ha detto che lei sapeva che c’era un motivo per cui stavo parlando di aborto con loro.
Cominciai a piangere e dissi: «Mamma ha avuto due aborti dieci anni fa. Avete due fratelli in Cielo.»
Sto piangendo ora pensando allo shock e alla delusione sui loro piccoli volti. Mi sembrava che la mamma che stavano conoscendo non fosse la persona che pensavano di conoscere. Mi chiedo chissà quali domande  sono corse per la loro testa in quei pochi secondi... tutte cose che loro potranno esprimere a distanza di anni da oggi, ma non possono essere elaborate adesso nelle loro giovani menti.

i figli di Kelly
Mia figlia si lanciò vicino a me e mi gettò le braccia intorno: «Ti perdono, mamma... va bene» mi disse. «Anch’io» - disse mio figlio - «e quando sarò grande non permetterò MAI che mia moglie lo faccia». Abbiamo tutti pianto insieme.
Continuai e parlai loro del pregare e del chiedere a Dio se i bambini fossero maschietti o femminucce e quali nomi Egli avrebbe voluto dare loro. Parlai loro di come Dio aveva detto che erano entrambe femminucce e le avevamo chiamate Bontà e Misericordia. «Come il versetto della Bibbia» - gridò mio figlio.
È successo circa due anni fa, e loro hanno sentito la mamma parlare molto di Bontà e di Misericordia. Ogni volta che ascoltiamo un canto con il Salmo 23 in esso o qualcuno legge quei passi della scrittura, mio figlio annuncia orgogliosamente: «Sono le mie sorelle!». L’aborto ora è un argomento comune di conversazione durante i nostri pranzi. Mi sono unita alla lotta per la VITA da sola, ma ora lottiamo insieme come famiglia.
Quando si avvicina la festa della mamma, molti sentono il dolore della perdita ma, insieme al dolore, io sento il senso di colpa. Mi mancheranno due biglietti della mamma... la mia colazione a letto sarà preparata da due bambini invece di quattro. C’è un vuoto che non si riempirà fino a quando vedrò di Gesù a faccia a faccia, ma fino ad allora la mia speranza rimane in questo: “Bontà e misericordia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita ...”

Kelly Clinger è un'attivista prolife che è stata vocalist per Britney Spears e ha avuto due aborti prima di diventare cristiana a 25 anni. Ora è sposata con Matt Clinger e ha due figli, Evin (15 anni) e Logan (9 anni). Kelly è portavoce della campagna “Silent No More Awareness”

“Mommy Had an Abortion:” How I Apologized to My Children