L’azione più grave che potessi fare nella mia vita

2010-06-30

Un’altra terribile storia di morte e risurrezione, che mostra una volta ancora, se ce ne fosse bisogno, come nei consultori le donne vengano spesso spinte ad abortire non prospettando loro alcuna altra possibilità, in nome di una libertà di scelta che però viene considerata tale solo se la “scelta” è quella di abortire.

La Voce di Lugo, 27 giugno 2010

La storia di Giulia: l’Ivg, la solitudine e la depressione. Poi un incontro che riapre alla vita
“Io, libera dopo due aborti”
“Non erano grumi di cellule. Lo so: erano i miei bambini”

di Michela Conficconi

LUGO - Più che alla storia di una donna emancipata del XXI secolo, forte di “diritti” come l’aborto conquistati a suon di battaglie culturali e sociali, la vicenda di Giulia - una giovane della nostra provincia - rimanda ad un dramma profondissimo di solitudine, intessuto proprio di quelle stesse frontiere che ne avrebbero invece dovuto esaltare la libertà.
Giulia ha solo 27 anni, ma alle spalle della sua breve vita ha già due aborti volontari, effettuati a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, il primo a 17 ed il secondo a 18 anni, ed una depressione scatenata da queste scelte che le ha minato progressivamente le relazioni interpersonali, il lavoro ed il corpo fino a portarla, più volte, sull’orlo del suicidio. È stato per anni pieno di brufoli il bel viso di Giulia: come quello di un’adolescente anche quando adolescente non lo era più. I suoi capelli neri e lucidi si erano diradati innaturalmente. La sua mente faceva irrigidire il corpo quando si trattava di accettare baci ed abbracci. E un bel giorno persino le sue braccia avevano pensato di tradirla rifiutandosi di funzionare anche per gesti semplici come fare il caffè. Non si affrettino i ben pensanti ad attribuire una sindrome post-aborto così profonda alla morale ecclesiale, perché all’epoca Giulia non frequentava la Chiesa. Ed era così lontana dal pensare che una cosa legale come l’aborto potesse avere effetti tanto devastanti nel vissuto di una donna che ci ha messo anni a capire che l’origine del suo male oscuro era proprio lì, in quel “grumo di cellule”, come le ripeteva chi aveva vicino, che per alcuni mesi le erano cresciute in grembo e che ad un certo punto, senza avere piena coscienza di quanto si accingeva a fare, ha acconsentito a far strappare da sé.
Oggi sta bene, e i suoi occhi sono tornati a brillare di quella solarità connaturale al suo carattere semplice e dolce. Ma perché le cose potessero andare a posto c’è stato bisogno di un lungo lavoro, guidato da uno psicoterapeuta. Non per dimenticare e liberarsi di ingiustificati sensi di colpa: la ricetta dei politicamente corretti. Ma per ammettere la gravità del gesto commesso, elaborarlo e rendersi conto che ad essere sbagliata non era lei, ma la scelta fatta. Una scelta avventata per impedire la quale praticamente nessuno allora intervenne, strutture pubbliche comprese (forse per non influenzare l’esercizio della “libertà”? Per routine?), e che se fosse stata informata, emotivamente non così sotto pressione, sostenuta psicologicamente, indirizzata a strutture di supporto, se avesse saputo che il bambino si poteva lasciare anonimamente in Ospedale, se, se, se, “non avrei probabilmente fatto”, dice. Tempi stretti e anche una innegabile superficialità da parte di diversi operatori incontrati nel cammino, l’hanno portata così dritta a quella che considera “l’azione più grave che potessi fare nella mia vita”.
Per Giulia è doloroso ricordare il Calvario di cui ella stessa è stata l’artefice, ma accetta di raccontare per la prima volta ad un giornale per “infrangere l’assurdo silenzio che attornia il dolore delle donne che hanno effettuato un’interruzione volontaria di gravidanza – spiega – e che la solitudine rende ancora più profondo. Le mamme, gli operatori devono sapere cosa vuole dire abortire, e se la mia testimonianza può servire ad impedire altri drammi non mi tiro certo indietro”. Tanto più che il vissuto di Giulia, a detta degli specialisti del settore, non è né più grave né molto diverso da quello di tante altre donne. Ed eccola la storia di questa ragazza, dura e a tratti quasi incredibile per la distanza tra quanto si afferma verbalmente e ciò che in realtà accade nell’iter delle donne verso l’Ivg e nel cuore di chi si decide di esercitare questo “diritto” conquista della modernità.
“La prima volta che sono rimasta incinta avevo 17 anni – racconta – Stavo con un ragazzo che in verità ero in procinto di lasciare perché violento. Non mi sono accorta subito del mio stato, perché non avevo il ciclo regolare ed era per me normale saltare un mese. Del resto non avevo notato nulla di particolare se non che mangiavo solo patate perché non mi andava altro. Poi un giorno vomitai violentemente per un odore intenso. Solo allora mi venne il dubbio e con immensa vergogna andai in farmacia a chiedere il test di gravidanza. Subito mi orientai verso l’aborto: perché ero molto giovane, non volevo che quel ragazzo fosse il padre dei miei figli e pensavo che una cosa legale non potesse essere sbagliata”. Quindi l’incontro con operatore del Consultorio che, responsabilmente, volle che Giulia, allora minorenne, parlasse prima coi suoi genitori (nonostante per la legge non sia indispensabile). “Mia madre fu subito d’accordo – prosegue la giovane – mentre ci volle di più per convincere mio padre. I tempi erano tuttavia stretti perché ero già allo scadere del terzo mese, il limite posto dalla legge italiana per una Ivg. In Consultorio, allora, mi fissarono d’urgenza l’appuntamento in Ospedale”. Nessuno psicologo né incontrato né proposto; nessuna delucidazione pratica sull’intervento di Ivg; nessuno che le abbia citato l’esistenza del Centro di aiuto alla vita. Tempo trascorso tra la scoperta della gravidanza e l’intervento: 3-4 giorni. Una bomba emotiva.
Quindi l’arrivo in Ospedale: era la mattina dell’11 settembre 2001: “Lo stesso momento in cui a New York cadevano le Torri Gemelle - evidenzia Giulia - Una singolare coincidenza che ha reso ancora più drammatico il ricordo di quel giorno”. Che peraltro non ha poi mai potuto fare a meno di vivere come anniversario, come nel caso della Pasqua per il secondo aborto, con tutto il dramma legato al rinnovo periodico del dolore. “In Ospedale parlai prima con una donna che penso fosse un medico – ricorda ancora provata - Mi trattava sgarbatamente, forse perché pensava che stessi per fare una cosa orrenda. Ma, mi chiedo oggi, perché non me lo disse e non fece nulla per impedirmelo? Io ero spaventatissima e confusa per l’intrecciarsi di paura ed emozione, anche perché sentivo di essermi già affezionata alla creaturina che cresceva dentro di me. Ebbi solo la forza di chiedere cosa mi avrebbero fatto durante l’operazione, ma ricevetti solo una risposta superficiale in tono sbrigativo, quasi mi stessi impicciando di ciò che non mi competeva. Ho appreso solo qualche mese fa, guardando su Internet, come si effettua una Ivg nel primo trimestre, ovvero dell’aspirazione a pezzi del feto. Dei momenti successivi ho rimosso tutto. Mi hanno solo detto che non ho fatto altro che piangere. Nelle settimane a seguire, tuttavia, non notai nulla di cambiato in me”.
Un dato in verità non strano, in quanto la sindrome post aborto matura, scrivono infatti gli esperti, non nel breve ma nel lungo periodo. “Pochi mesi dopo rimasi ancora incinta, di un altro ragazzo – prosegue il racconto – Mi accorsi ancora tardi del mio stato, perché avevo avuto comunque una sorta di ciclo”. Ed ecco la nuova avventura al Consultorio: “Mi fissarono l’appuntamento a ora di pranzo, ma quando andai la dottoressa mi disse che era un brutto momento e che avremmo dovuto fare presto perché doveva uscire per la pausa. Mi toccò la pancia e mi disse che effettivamente ero incinta. Quindi mi indirizzò ad una clinica convenzionata per gli esami in vista dell’aborto. Nessuna ecografia, nessuno psicologo, nessun tentativo di dissuadermi”. Poi l’incredibile: “Al Consultorio non mi fecero fretta perché senza ecografia non mi avevano detto di quale mese ero. Quando arrivai in clinica ebbi dunque la sorpresa di sapere che mi trovavo al quarto mese e che non potevo più abortire. Mi misi a piangere e il medico mi disse che c’era comunque una soluzione: si poteva andare in Nord Europa dove gli aborti si praticano a pagamento fino al quinto mese, e che avrebbero provveduto a tutto loro. Viaggio aereo e alloggio compreso… il tutto a meno di un migliaio di euro. Avevo un’ora di tempo per decidere. Andai in cortile da sola e piansi ininterrottamente. Poi scelsi di procedere. Anche in questo caso nessun percorso alternativo suggerito dagli operatori e nessuna spiegazione sul metodo dell’aborto che, nel secondo trimestre, è un parto prematuro pilotato che per me fu in anestesia totale”.
“Nella clinica estera nessuno parlava la mia lingua e si comunicava per gesti – ricorda ancora carica di dolore Giulia – Quando tornai ero così provata che mi erano cadute ciocche intere di capelli”. Mese dopo mese, poi l’arrivo della depressione, con incubi, progressiva chiusura in sé stessa, pianti continui. “Colori, odori, voci, c’erano mille cose che vivevo con ansia e dolore – dice – Poi ho capito che mi rimandavano alle Ivg, e sono arrivata a collegare, anche per i sogni ricorrenti, che tutto il mio male derivava di lì. Comparirono anche pensieri terribili come: ’ho ucciso e ora devo morire io’”.
Poi il lieto fine, con la scelta di aprirsi ad un sacerdote e, poi, l’approdo ad una psicoterapia per sindrome post aborto: “Mi hanno fatto dare un nome a quei piccoli di cui sono stata anche se per poco madre. Non li ho mai visti ma sento che il primo era una femminuccia e il secondo un maschietto. Passo dopo passo ho imparato a convivere con il dolore senza che questo mi schiacciasse. Solo ammettere la gravità di quanto accaduto mi ha dato pace e ha riaperto i rapporti che prima rifuggivo, anche nei confronti dei bambini”. E conclude: “Non si può mascherare la realtà dell’aborto sostenendo che un bimbo nel grembo di una donna non è nessuno e che quindi si può liberamente buttare. Una mamma sa d’istinto che non è così, e non c’è ideologia che possa nascondere questa verità che emerge dal profondo dell’anima da ogni parte, come un fiume in piena, al di là della propria formazione e dei propri pensieri”.


Una grande parte di me è morta con il mio primo aborto

2010-06-20

 La testimonianza che segue è tratta dal libro Giving Sorrow Words: Women's Stories of Grief After Abortion [Dare parole al dolore: storie femminili di lutto dopo l’aborto].
Copyright 2007, Melinda Tankard Reist.

Ricordo chiaramente gli eventi che hanno fatto da cornice ai miei aborti. Ci sono alcune cose che sono così sommamente terribili, così devastanti, e non svaniscono mai dalla mente o dal cuore.
Idolatravo il mio ragazzo, che avevo incontrato quando avevo 17 anni. Stavamo insieme, tra alti e bassi, da diversi anni. Nonostante il modo in cui mi trattava, che talvolta poteva essere molto crudele, e nonostante il suo brutto carattere, lo amavo veramente. Dovevo solo sforzarmi, o essere migliore, o stare attenta a non farlo arrabbiare. Temevo il suo carattere e avrei sopportato quasi qualsiasi cosa per evitare una scenata.
Penso che lui ne sia gradualmente diventato consapevole, perché nel corso degli anni il suo dominio su di me è arrivato a un punto tale in cui è diventato un tiranno.
Dovevo vestirmi come diceva lui, pettinarmi come voleva lui, che non avessi amici per conto mio a meno che lui non fosse fuori città. In realtà non ho mai smesso di analizzare tutte queste cose. Ero troppo giovane e infatuata di lui per comprendere che la nostra non era una relazione normale. Credevo che, se solo fossi riuscita ad accontentarlo di più, tutto sarebbe andato bene.
Quando scoprii di essere incinta, ero eccitata. Non era previsto, ma ero davvero felice. Passai la maggior parte della giornata a pensare a quando sarebbe nato il bambino, che aspetto avrebbe avuto, e pensieri come questi, ma quando il mio ragazzo arrivò a casa e gli diedi la notizia, si infuriò in modo terrificante. Piansi, implorai, tentai di addolcirlo, ma invano. Era risoluto sul fatto che dovevo abortire.
Una settimana dopo ero nella clinica per aborti con lui, per avere una presunta “assistenza” da una persona della clinica. Lei aveva circa 40 anni, portava gli occhiali ed una giacca bianca. Sembrava così materna e empatica inizialmente; ci disse anche che aveva quattro figli. Piangevo a più non posso, ripetendo in continuazione che non volevo abortire. Ero disperata. Sapevo che per me era impossibile oppormi al mio ragazzo con le mie sole forze, ma pensavo che questa “assistente” avrebbe potuto sostenermi e forse aiutarlo a ragionare.
Invece si mise dalla sua parte. Adesso avevo due persone che mi facevano la predica. Ripetevo in continuazione che volevo avere il bambino, ma loro due mi misero al tappeto. Mi sentivo messa in un angolo. Ero seduta, e loro erano in piedi davanti a me. Una volta feci un corso su come concludere una vendita, e mi sembrava che questa “assistente” doveva essere andata agli stessi corsi sulle vendite.
Ci fu un istante di pausa nel lavaggio del cervello, quando stavo per dire: “Quale commissione le danno?” ma naturalmente non lo feci. Ero seduta e piangevo. Non mi chiesero mai come mi sentissi, o che cosa volessi. Né mi furono date informazioni sugli aiuti possibili per le ragazze madri. E neanche fu mai considerata la possibilità dell’adozione. Mi dissero solo, ripetutamente, che non era possibile che potessi sopravvivere da sola con un bambino, che prima o poi non ce l’avrei più fatta, il mio ragazzo non mi avrebbe più rivista, i miei genitori non mi avrebbero mai perdonata, e così via.
Un ricordo che emerge fortemente da questo episodio è la falsa informazione datami sia dall’“assistente” sia dal medico che avrebbe eseguito l’aborto. Cioè che a quello stadio della gravidanza il bambino non era assolutamente umano; era semplicemente un “insieme di cellule, non più grande della capocchia di un fiammifero”.
Dopo allora ho imparato, naturalmente, che ad otto settimane il cuore del mio bambino stava già battendo da più di un mese, e che molti altri organi avevano cominciato a formarsi. Il bambino era già cresciuto molto più di quanto fui portata a credere.
Mentre stavo ancora piangendo disperatamente, fu preso un appuntamento per l’aborto per la settimana seguente. Non dimenticherò mai quell’aborto né la settimana che l’ha preceduto. Ho provato in ogni modo a seppellire i ricordi e ad andare avanti come se la vita fosse normale, ma come poteva essere ancora normale quando dovevo vivere con la consapevolezza che il mio bambino era stato ucciso e smembrato dentro il mio corpo? È un fatto troppo orribile e repellente per potercela fare.
Dopo l’aborto, il comportamento del mio ragazzo verso di me divenne sempre peggiore. Sembrava provare godimento dall’essere crudele con me, e rideva o esplodeva di rabbia quando piangevo, cosa che facevo spesso. Aveva sempre avuto delle storie prima, ma ora sembrava che non gli importasse più che io lo sapessi.
Sopportai tutto questo. Deve sembrare incredibilmente stupido, ma suppongo che il mio ragionamento fosse che dopo ciò che avevo fatto per lui non era possibile che lasciassi fallire ora la nostra relazione, altrimenti la morte del mio bambino sarebbe stata per nulla. L’avevo fatto per tenerlo; non potevo lasciarlo dopo tutto questo.
E così continuò, lui diventava sempre più sadico con me, ed io subivo sempre di più senza lamentarmi. Quando rimasi incinta per la seconda volta, non ci fu discussione su cosa si doveva fare. Allora ero così condizionata ad essere sotto il suo controllo che io stessa prenotai la clinica ed abortii, dopo avere visto lo stesso “assistente” e dopo essere stata frettolosamente rassicurata che, naturalmente, stavo facendo la cosa giusta.
Come con il precedente aborto, sentivo che non avevo nessun posto e nessuno a cui rivolgermi, così era più facile andare avanti con tutti. Inoltre tanto di me era morto con il mio primo bambino, non era rimasta nessuna voglia di lottare.
Incredibilmente, rimasi incinta una terza volta. Stavolta sapevo di non poter affrontare un altro aborto. Avrei avuto un esaurimento nervoso o mi sarei suicidata. Il mio lavoro mi portò fuori città per due mesi questa volta, così aspettai di essere sicura in un’altra città prima di telefonargli e dirgli della gravidanza. La sua reazione fu, come prima, furia assoluta. Deve avermi chiamato circa ogni notte in cui ero via, mai per dirmi che mi amava o che gli mancavo, ma solo per urlare nel telefono che la prima cosa che avrei dovuto fare al ritorno sarebbe stata abortire.
Mentre ero via avevo molto tempo libero, e ne passavo la maggior parte a riposare e a fantasticare sul bambino. Ero sicura fosse un maschietto, gli parlavo, gli dicevo quanto fosse prezioso e amato. Mi sentivo abbastanza forte, quando tornai a casa incinta di tre mesi, da rompere la relazione e tirare su da sola il bambino. Due giorni dopo, però, anche questo bambino fu abortito, nella stessa clinica, tra lacrime e angoscia indescrivibile. Il mio ragazzo e l’assistente si presero un caffè lì vicino.
Poche settimane dopo lui letteralmente mi trascinò a visitare sua sorella ed il suo bambino appena nato. Fu la cosa più difficile che dovetti mai fare. Il mio cuore ed il mio spirito erano completamente a pezzi. Ero così sommersa dal senso di lutto che pensavo non avrei mai potuto continuare a vivere.
Alla fine riuscii a resistergli. Avevo una famiglia, i suoi figli, e sebbene non fossi sposata con lui quando nacque il nostro primo figlio, i miei genitori erano amorevoli e mi sostenevano. Divorziammo quando nacque il nostro terzo figlio, perché provò ancora con forza a persuadermi ad abortirlo, e rifiutai.
I miei figli sono meravigliosi e sono davvero felice. Li amo più di quanto pensassi fosse possibile. I bambini che sono stati presi via da me, però, vivranno sempre nel mio cuore. Non c’è modo di comunicare l’enormità del mio dolore, o di dire quanto disperatamente li desidero. I miei figli sono ciò che mi mantiene sana di mente; ciò che mi fa andare avanti è il pensiero che un giorno saremo tutti riuniti insieme.

http://www.theunchoice.com/UnChoiceStories/unchoicestorieswhyGod.htm


Il mondo tabù del post-aborto

2010-06-13

Vi propongo questo bell’articolo sul post-aborto a cura del Dono.





Pablo ha vissuto ventidue settimane e un giorno. Una vita cortissima. Ma è stata capace di trasformare quella di Lucia. È un lunedì mattina, quando entra in ospedale per abortire. Gli esami hanno evidenziato una malformazione. In sala parto, l’ostetrica le chiede se vuole vedere il bambino. Lei rifiuta. Poi cambia idea. «Me l’hanno messo tra le braccia e le parole mi sono uscite da sole: “Amore mio”. Era stupendo. Sembrava dormisse», racconta Lucia a Tracce. Davanti al medico, a un elenco dettagliato di problemi senza soluzione, l’aborto le è sembrata l’unica possibile. «Io non volevo soffrisse e l’ho ucciso. Che inganno». Il primo attacco di panico l’ha sorpresa poco tempo dopo: «Di lì è iniziata la disperazione. Ero schiacciata dall’angoscia. Con lui sono morta anch’io». Questa frase è identica in tutte. Nelle storie delle donne che hanno abortito, la ripetizione delle stesse parole è vertiginosa. Madri che non si conoscono, con età ed esperienze diversissime. Ma il dolore è uno. Basta entrare nei forum virtuali dove si rifugiano, sono messaggi senza volto che gridano allo stesso modo. Cercano chi capisca quel grido. E sono piene di domande.

Quello del post-aborto «è un mondo tabù». Cinzia Baccaglini è psicoterapeuta familiare e membro del consiglio direttivo del Movimento per la Vita. Ha seguito centinaia di donne segnate dall’interruzione volontaria di gravidanza. È nelle chat e nei blog femminili che emerge tutta questa sofferenza negata. Si perde dietro a dei nickname. Anonima e sconfinata. «Non servo a niente. Che cosa sono? Chi sono? Tutto continua, normalmente, senza senso. Sono morta quel giorno». Qualcuna è colta da delle crisi, alla sera, non sa dargli un nome: «Mi sento qualcosa salire dentro il corpo, un peso che mi fa scoppiare in lacrime». E quasi tutte scrivono rivolgendosi ai figli, parlano con loro: «Ti penso sempre. Ho avuto paura del tuo arrivo, ma più passa il tempo e più il senso di colpa si insinua nella mia anima». Sono lettere a bambini mai nati, ma presenti: «Sei arrivata all’improvviso. Ora mi restano solo i cinque mesi in cui la tua vita ha incontrato la mia e quella di tuo padre»...