Il danno dopo la beffa

2012-02-22

di Serena Taccari
tratto da «Mamme che piangono, il dolore che resta dopo un aborto»

Accompagnare gli eventi di nascita è una cosa bellissima di cui tutti andiamo fieri e che portiamo come fiore al nostro occhiello. Eppure se si vuole parlare di vita c’è anche altro, qualcosa in cui nessuno ha voglia di stare, che è davvero troppo scomodo, e che obiettivamente dal punto di vista sociale ha rappresentato e rappresenta una carenza ben vistosa. Sì, perché si dà il caso che una bella pancia di una mamma sia sotto gli occhi di tutti, un bambino che nasce sia sotto gli occhi di tutti, una donna che sorride sia sotto gli occhi di tutti. Eppure anche il fatto che sia una donna – che è anche lei vita – con i suoi piedi a entrare in ospedale con una gravidanza e ad uscire dall’ospedale senza la gravidanza, sempre lei, coi suoi soliti piedi, è sotto gli occhi di tutti.

E poi? Dove va? Cosa fa? È chiaro che un mondo che propone l’aborto come soluzione di tutti i maggiori problemi femminili non può tollerare di vedere quello di cui non ci si vanta, quello di cui non si va fieri: la donna che ha abortito. Ma è davvero una carenza abbastanza vistosa, proporre alle donne la scelta dell’aborto magari dopo aver negato l’esistenza in quel minuscolo embrione, di un figlio, e poi dimenticarsi di quelle stesse donne cui è stato “erogato” questo pubblico servizio: non dobbiamo sforzarci troppo per capire che se il bambino non tornerà indietro, dopo un aborto sono loro, quelle che restano. Le donne.

In tanti anni che lavoro in questo ambito mi sono chiesta perché non si faccia un sondaggio anche non ufficiale, così, tra le chiacchiere di tante amiche in modo che la risposta sia intima, sincera, profonda e non “la risposta esatta”, per capire se le donne che hanno usufruito di questo diritto sociale all’aborto ritengono di aver avuto un grande privilegio. Dal canto mio, posso rispondere senza presumere di rappresentare tutto l’universo femminile, ma a nome di quel campione di circa 4000 donne che noi abbiamo seguito dopo una interruzione di gravidanza, delle quali nessuna è fiera di aver abortito e non ritiene di aver fatto un passo avanti nel suo personale progresso sociale in quanto donna, per l’aver usufruito di questo diritto.

Forse qualcuno ti dirà che insieme a tuo figlio morirai anche tu, ma questa è una verità relativa, la verità schiacciante è che non morirai affatto, a te sarà concesso di vivere, e quella sarà la tua punizione più grande. Vivere con un fardello enorme da portare, con la consapevolezza che tu, solo tu, hai ucciso tuo figlio. Tu che dovevi amarlo e proteggerlo, tu che sei la sua mamma, l’unica di cui tuo figlio ha bisogno.
(da Quello che resta, ed. VitaNuova).

Queste poche drammatiche frasi sono la fotografia di un dolore che nessuno vuole ascoltare o vedere, di una realtà che socialmente bisogna tenere sepolta perché guardarla non è politicamente corretto; e questo è lo sberleffo, il danno dopo la beffa che si infligge alle donne.
Neanche gli abortisti incalliti ritengono più che l’aborto sia una scelta facile, non ti diranno più che è come togliere un dente, eppure nessuno vuole sentir parlare di una donna che dopo un aborto si strappa i capelli… sì, anche nel senso fisico del termine. O che si butta sull’alcool, sulla droga o sulle storie di sesso insensate. O che non riesce a guardare più in faccia i propri figli, o il proprio marito o compagno; che allo scoccare di ogni anno viene assalita da un inspiegabile magone, da accessi di pianto… ed agli occhi di tutti diventa quella “strana”, quella “depressa”, quella che “lo vive male”.

C’è qualcuno che vive bene la morte di un figlio? Immagino che se incontrassimo qualcuno che ci dicesse: “Sai oggi mio figlio si è schiantato contro un tir, vado a mangiare una pizza, vieni?” allora sì, dovremmo preoccuparci; e non troveremmo alcuna stranezza in una donna che si dispera per la morte di un figlio.

Ma… saremmo a disagio. Saremmo sì ugualmente a disagio e non vorremmo telefonarle perché “che cosa le dici?” – niente… che vuoi dire a una madre cui è morto un figlio? Come si fa a consolarla? Quali parole possono cercare di colmare questo vuoto? E allora cercheremmo forse di evitarla e i più coraggiosi, magari dopo qualche giorno, andranno a fornirle un silenzioso abbraccio. Oppure si aspetterà… perché il tempo lenisce le ferite, si dice, le cura.
La morte ci mette a disagio, eppure fa parte della vita il morire. E nessuno ci ha garantito che moriremo in grande pace nel nostro letto di casa, né a noi, né ai nostri figli.
E cosa si può dire a quella madre cui è morto un figlio ed è stata lei stessa a condannarlo a morte senza capire cosa stava facendo? Quella donna che piange, piange perché vorrebbe tornare indietro nel tempo, perché avrebbe voluto incontrare qualcuno sulla sua strada che le avesse mostrato un’alternativa al suicidio… sì, perché questo strambo suicidio in cui essa resta in vita, in perenne agonia, è una morte lenta, non del corpo certo, ma non è meno morte.

Ho detto “senza capire cosa stava facendo”. Ebbene sì. Nel 2012, ripeto, senza capire cosa stava facendo. Io non ho seguito delle pazze che andavano ad abortire gridando “voglio fare a pezzi mio figlio!”. Ho seguito donne spaventate, terrorizzate, che non avevano alcun sentimento di odio verso il bambino, ma che in quella gravidanza non riuscivano proprio a vederlo.
Si parla spesso di lessico che modifica le coscienze, e ritengo che sia profondamente vero.

Con il termine “gravidanza” è molto più difficile riuscire a identificare un figlio, rispetto a quando si ha davanti un bambino bello e nato. Se qualcuno avesse messo in braccio a quelle mie stesse donne un bimbo di qualche giorno che avrebbero dovuto crescere loro, avrebbero sbuffato, si sarebbero arrabbiate, avrebbero battuto i piedi in terra, ma non gli avrebbero torto un capello. No, non sono donne arrabbiate contro il bambino: costoro sono donne ingannate, perché quel bambino non riescono proprio a vederlo, al di là di quel panico irrazionale che le attanaglia. Panico che è anche fatto di una subdola coercizione attuata a livello sociale. Da una società che ti definisce stupido se fai figli, che per questo ti castra sul posto di lavoro, e ti rende tutto terribilmente difficile; da una famiglia che non è accogliente e ti fa sentire più sbagliata di quanto già ti senti perché sei rimasta incinta in un momento che forse non era il top o perché questo è il terzo o quarto figlio… neanche li andassero a partorire loro. Da uomini che promettono eterno amore e dichiarano anche di volere con te un figlio ma poi come esce il test positivo spariscono come il mago Zurlì, o nel peggiore dei casi si pongono come ricatto perché quel figlio, concepito da tutti e due, da uno solo venga fisicamente eliminato.

Affinché questo si inizi a poterlo vedere, prima che a volerlo vedere, è necessario che cambi la mentalità; che cambi qualche altra cosa dentro ciascuno di noi, che ci si senta responsabili di un silenzio coatto in cui sono state chiuse tutte quelle centinaia di migliaia di donne che hanno abortito e che stanno soffrendo.

Occorre che tutti aprano gli occhi su una realtà: quella dei dati del Ministero della Sanità che parla ogni anno di circa 130mila aborti. Pensateci bene: supponendo che non sia sempre la stessa ad andare ad abortire, sono in totale 130mila donne. Sono ottimista? Va bene, vogliamo essere pessimisti: allora saranno 90mila? 70mila? E dove stanno? Dove sono? A fare le maestre mentre tengono i nostri figli vivi e ripensano continuamente al loro che hanno eliminato? A curare altri bambini in casa piangendo in bagno le somiglianze che immaginano ci sarebbero state con il figlio che oggi non c’è? Negli uffici, al bar, dove sono? In casa nostra? Nel nostro palazzo? E noi, perché non le riusciamo a vedere? Perché non riusciamo a vedere che aiutare una donna a portare avanti una gravidanza in qualunque situazione si trovi è un investimento per tutti noi?

Si stima che una donna su quattro abbia abortito almeno una volta. Io auguro a ciascuno di avere il coraggio di prendere la sua agenda e per tutte le donne che conosce si faccia una domanda: chi? E anche un’altra domanda: come sta? E provi a rispondersi. E magari – che non guasta – a trovare il coraggio di esporsi e chiedere, di sentire il desiderio di dare speranza a chi nella sua vita non la vede e pensa di non meritarla più, ma soprattutto di smetterla di sostenere che la scelta delle donne sia suicidarsi con un aborto e di avere voglia di spendersi per la vita, delle donne e dei bambini, perché nessuno si salva da solo e tutti siamo chiamati in gioco.



Due aborti, il buio e poi... la luce

2012-02-13

Questa testimonianza è comparsa su Avvenire del 5 febbraio scorso. Ringrazio il blog dell’Uomo Vivo per la segnalazione.

«La mia vita è stata un ring sul quale il Male e il Bene si sono affrontati per venti anni. Un Male che era nato sull’esperienza dell’aborto. Alla fine l’amore di Dio ha vinto... E te lo dice una ex atea, bestemmiatrice convinta». Difficile sovrapporre l’antica Alessandra all’Alessandra di oggi, sempre bella come allora ma di bellezza nuova, serena e trasparente come i suoi occhi. È lei che nella Giornata per la Vita si fa avanti per raccontarci la sua storia, spinta da un’urgenza ben precisa: «Spero che la mia vicenda possa aiutare altre ragazze», sorride. Alessandra Pelagatti, 39 anni, nata vicino a Milano e approdata a Roma come attrice, oggi è il volto della serenità, ma per tanti anni è stata il campo di battaglia su cui due Alessandre si sono dilaniate.

Come trovi la forza di parlarne?
Le mie esperienze di aborto e la conseguente ferita di cui dopo vent’anni porto ancora i segni sono anche una testimonianza di conversione e di fede. Spero così di parlare al cuore di altre donne, anche solo di una, che forse sottovaluta cosa significhi per l’anima - o per la coscienza, se non ha fede - scegliere volontariamente di uccidere il proprio bambino. Non voglio convincere nessuno, ma mi piacerebbe che tutti riuscissero a immaginare la propria vita quando, un tempo lontano, avevano solo un giorno dopo il concepimento: quel giorno eravamo già noi, unici e irripetibili. Se qualcuno avesse deciso che quella cellula non avrebbe accompagnato il sorgere del sole del giorno due, noi non saremmo qua.

Come sei arrivata all’aborto?
Mia madre, dopo aver ricevuto un’educazione soffocante, divenne una donna assolutamente lontana dalla Chiesa, desiderosa di indipendenza e “libertà”. Io sono nata come figlia dell’amore, ma anche un po’ per gioco... Un gioco più impegnativo del previsto, così i miei genitori quando avevo 5 anni erano già divorziati e io crebbi in totale precarietà psicologica, tra un padre lontano e una madre al suo traguardo di “libertà”. Libertà di cui apprezzai presto il “vantaggio”: poter star fuori fino a tardi, andare in vacanza da sola a 14 anni, dormire col mio ragazzo... Cose proibite alle mie amiche, e ai miei occhi mia mamma diventò un mito. Come lei, venni su atea. Il resto è conseguenza: a 15 anni la paura di essere rimasta incinta e mamma che mi fa prendere la pillola del giorno dopo. A 18 anni incinta ci resto davvero e mamma organizza l’aborto, dicendomi che per un figlio c’è tempo, ora devo «godermi la vita». Anche il mio fidanzato, cui dico di un figlio nostro, risponde semplicemente «preferisco di no».

Come giudichi tua madre?
Indubbiamente ha sbagliato, ma so che era offuscata dalla fitta coltre di macerie che impedivano alla luce di entrare nel suo cuore. Più colpevole è stato il ginecologo, che non mi indirizzò ai colloqui psicologici previsti dalla legge 194 e obbligatori, e alle mie remore rispose che «fino a tre mesi non si può parlare di vita». Ancora oggi mi chiedo perché non mi fece sentire il “suo” cuore durante l’ecografia. Cuore che batte già dal 18esimo giorno. Così, mentre studiavo per la maturità, entrai all’ospedale di Desio.

Che cosa ricordi?
Mi misero un ovulo preparatorio e mi lasciarono in uno stanzone con altre sette donne. Una ragazzina nel letto di fronte al mio era tra il triste e il terrorizzato, ci fissavamo come per trovare appoggio l’una nell’altra, sul volto una richiesta di aiuto che non sarebbe mai arrivata. Ci venivano a prendere una dopo l’altra. Nel pomeriggio presero lei, uscì sveglia, rientrò addormentata e senza più il bambino. In un attimo di lucidità ebbi il coraggio di reagire e chiesi di andarmene, ma il ginecologo mi spiegò che quell’ovulo era abortivo, non potevo più tornare indietro. Finì con l’anestesia, poi il risveglio, vomito, dolori lancinanti, una emorragia... L’amore torna solo dopo anni di buio, e immediatamente resto incinta... Di nuovo penso a quanto mia madre sia un mito, e di nuovo il secondo fidanzato ripete quel «preferisco di no». Stesso ginecologo, stesso ospedale ma tutto rinnovato, questa volta niente stanzone, anzi, camera singola... Ullallà, devono rendere bene questi aborti, penso.

E inizia il precipizio... 
Fatto di odio furioso, vuoto incolmabile, desiderio di togliermi la vita. Avevo solo 24 anni e i tredici successivi li ho passati tra psichiatri, psicofarmaci, libri new age, yoga, buddismo, insomma, la ricerca di “qualcosa”. E ogni volta le ricadute in quel baratro profondo. Mi divenne intollerabile pensare di spegnere una vita e, io che ne avevo soppresse due, facevo cose estreme come gettarmi vestita in piscina per salvare una coccinella che galleggiava e adorare i miei gatti per sostituire i miei figli... Poi è arrivato P., l’amore vero, e ho deciso che “ora” potevo avere un bambino. Ma “ora” era il bambino a non venire più... Ogni volta che vedevo un passeggino la rabbia diventava violenta. Il male mi aveva attanagliata.

Come arriva il primo spiraglio?
P. e io siamo “casualmente” passati per Assisi. Al culmine dell’indifferenza mi fermai un istante con lui, che era credente, davanti alla tomba di san Francesco, dove pregò per me con disperazione: bastò quell’istante per far sì che Francesco lo ascoltasse. Ma la via era ancora lunga e faticosa. Quando sei disperata le pensi tutte, sono anche andata da un esorcista, che però mi ha detto che avevo solo bisogno di fare un cammino di fede e che da sola non ce la potevo fare, dovevo prima riconciliarmi con Dio. Rinfrancata, tornai a casa con la mia bottiglia di acqua santa e... dimenticai di mettermi in cammino. Seguirono altri giorni atroci, Male e Bene lottavano dentro me, P. mi spingeva a chiedere aiuto a Dio, mi regalò persino la Bibbia e lì... ho trovato il Vangelo. Misteriosamente, inspiegabilmente ogni vuoto si colmava, nelle parole da Lui pronunciate ogni domanda trovava risposta, tutto aveva un senso. Una pace profonda prendeva il posto della disperazione grazie alla conversione del cuore. Ma il Male non era per niente contento della strada che stavo intraprendendo e non mollava la presa. Più mi avvicinavo alla Chiesa e più il mio buio si infittiva, il desiderio di diventare mamma contorceva la mia anima, rimpianti e sensi di colpa venivano fuori uno dopo l’altro come foulard annodati tra loro dal cappello di un prestigiatore, tutti di colore nero.

Quando, finalmente, la fede?
Quando, sempre per “caso”, siamo finiti allo Speco di san Francesco sulle colline di Narni, dove faticosamente una breccia si è aperta nel mio cuore ormai sfinito, e poi a Medjugorje, per una serie di “coincidenze” che ci hanno deviati laggiù mentre dovevamo andare al mare in Croazia. Sentivo che là, da Maria, avrei trovato la risposta e, non avendo i soldi per il viaggio, sono corsa a vendere tutto l’oro che avevo in casa, i regalini dei fidanzati che da anni erano chiusi in un cassetto: permettermi di fare una cosa tanto importante mi sembrava il miglior modo per ricordarli con la gratitudine che meritavano. La mia risalita verso la luce è stata costellata di incontri “casuali”, che Dio mi metteva sulla strada anche a costo di sofferenze indicibili, ma che mi avrebbero alla fine condotta a sentirmi da Lui perdonata e amata: era questo il pezzo fondamentale che ancora mi mancava.

E ora?
La mia vita è un pellegrinaggio fatto di curve, rovi, buche nelle quali ancora inciampo, ma ora mi affido a Gesù portando sulle spalle la mia croce. La croce di non essere madre. Lo sono stata di Andrea e di Camilla, per tre mesi rimasti nel mio grembo, nomi che ho dato loro al ritorno da Medjugorje senza nemmeno sapere se erano maschio o femmina, ma ho voluto così per chiedere a Maria di stringerli nel suo abbraccio materno. A lei affido mia madre, oggi provata da un dolore nuovo che, lo so bene, non può che condurla a un bene maggiore.


Non ho difeso la mia bambina

2012-02-09

Dal sito del Dono una toccante testimonianza di un uomo ferito dall’aborto.


Ho 36 anni e la mia bimba ne avrebbe avuti quasi 5. Doveva nascere a luglio del 2002 se... se... se... Voi non ve ne accorgete ma ho scritto e cancellato una cifra di frasi perchè non è facile. Quando lei mi chiamò sentii subito dal tono di voce che qualcosa non andava. Io la amavo, lei mi aveva detto che si era lasciata con l’altro ed io, un paio di settimane prima, ero corso da lei e... abbiamo fatto l’amore. Ma il giorno dopo ecco l’altro ritorna e lei, beh, mandò via me. Qualche settimana dopo, una sera, quella telefonata. Io ero arrabbiato con lei, ferito, ma sentii il suo tono e quasi scherzando le dissi: «come ti sento abbattuta, neanche tu fossi incinta!». SI, era incinta! Io ero già nell’esercito da molti anni, pilota di elicotteri, ottimo stipendio, casa assicurata; incominciai a saltare sul letto dalla gioia e con frasi forse sconfusionate incominciai subito a dirle che poteva venire da me, avrei pensato io a lei e al bimbo, all’università... avrei... avrei... avrei. Ma mi interruppe dicendomi che non era mio, il bimbo e che non lo avrebbe tenuto. Già conoscete fin troppo bene le frasi, devo studiare, i miei che direbbero, non è il momento, non sono pronta, con l’altro sta andando a rotoli ecc. ecc. Ed io ascoltavo come annebbiato. Per alcuni giorni ci sentimmo assiduamente, io le chiedevo se fosse convinta davvero, quante volte le feci questa domanda, ma la risposta era sempre la stessa; poi mi disse che l’altro voleva che lei lo tenesse il bimbo. Per me fu troppo. Aveva l’altro vicino, non era figlio mio, ma che perdevo tempo a fare! E mollai tutto: le dissi di fare come le pareva e, visto che era già accompagnata in questo cammino, io me ne tiravo fuori.
Cinque anni e cinque mesi sono passati ed ancora sento un crampo allo stomaco quando ripenso a quell’ultima telefonata. Mi chiamò qualche giorno dopo aver effettuato l’intervento; qualche settimana dopo si era mollata di nuovo col tipo e, tre mesi dopo, cominciammo una storia io e lei. Non racconterò i moltissimi eventi in cui si evidenziava il suo indescrivibile dolore, al quale non aveva il coraggio di dare un nome ed una collocazione. Il giorno in cui mia sorella mi annunciò di essere incinta, era insieme al marito, raggiante di felicità per la nuova vita in arrivo, la mia ragazza ebbe un crollo terribile. Finalmente quel dolore lancinante, fisico e psicologico, aveva un nome. Un sacerdote ci fu di grande aiuto e fece una benedizione per la bimba che chiamammo Margherita. Circa un anno dopo, ero in Iraq, ci lasciammo per altri motivi ma... mi rivelò che, in realtà, quella bimba era mia figlia. Era la mia bimba. Ed io per orgoglio ferito, ignoranza, superbia, gelosia non l’avevo difesa. Ed il senso di colpa è ancor più torturante perchè sono consapevole che se avessi saputo che era mia quella bimba, avrei smosso il cielo e la terra per salvarla ma non perchè la vita era preziosa in quanto tale ma egoisticamente ponendo quel possessivo davanti: “mia”.
Il tempo, si dice, è un dottore meraviglioso: il ricordo si attenua e con esso il dolore. Si impara dalle proprie esperienze ed io ho imparato molto da questa... La vita è importante in quanto tale, e come tale va difesa, in ogni luogo e tempo, senza condizioni. Penso spesso alla mia Margherita... a volte, quando sono in volo con il mio elicottero, cerco di bearmi il più possibile delle viste meravigliose che si godono da lassù... e immagino che la mia bimba possa, attraverso i miei occhi ed il mio cuore, vivere le stesse esperienze del suo babbo... e la immagino presente con me, e lo è nel mio cuore, in ogni avvenimento della mia vita. E non mi vergogno di commuovermi ogni volta che penso a lei. Su questo forum ho notato che gli uomini sono quasi assenti; questo mi dispiace molto. Mi chiedo spesso come è possibile che così spesso siamo proprio noi uomini la causa di tanti immensi dolori... poi mi ricordo di come mi sono comportato io.. Credo che se ascoltassimo di più i nostri cuori vivremmo molto meglio... molto! Ora mi conoscete un pelino di più, nella mia parte molle... ma della quale sono felice, davvero felice... e che spero il Signore mi aiuti a non oscurare mai: si soffre di più, ma si vive anche di più! Un abbraccio a tutti e grazie per aver creato questo posto: un posto per gli angeli anche in rete.