La legalizzazione dell'aborto tutela la salute delle donne?

2010-05-29

Un documentatissimo articolo sulle mistficazioni relative alla legge 194/78.


Giuliano Guzzo

Il più noto tormentone abortista, come ogni pro-life ben sa, riguarda la salute della donna; non puoi mettere in dubbio la liceità dell’aborto di Stato che vieni letteralmente sommerso dalle ingiurie più turpi, dall’inciviltà al maschilismo, dal cinismo alla misoginia. E pensare che gli argomenti per convincere i sostenitori dell’aborto che la pratica che difendono è, in assoluto, quella più ostile alla salute delle donne, abbondano. Anzitutto si potrebbe osservare come l’interruzione volontaria di gravidanza, molto spesso, impedisca alle donne di nascere: solo in Asia, a causa dell’aborto di massa, mancano all’appello 160 milioni di bambine[1]; il che, si stima, genererà presto uno squilibrio il cui esito sarà, per tanti milioni di giovani, l’impossibilità di sposarsi.

In secondo luogo, andrebbe ricordato che consentire ad una donna di abortire, di fatto, significa esporla ad un trauma di portata decennale: la sindrome post-aborto. A confermarlo, manco a dirlo, sono proprio studi condotti da donne: la dottoressa Everett Koop, incaricata da Reagan di fare chiarezza sugli effetti dall’aborto, coordinò uno studio monumentale incontrando 27 gruppi fra filosofi, sociologi, medici e altri professionisti interessati al problema dell’aborto, intervistando donne che avevano abortito ed eseguendo un’accurata revisione di più di 250 studi in letteratura pertinente all’impatto psicologico dell’aborto. Le conclusioni della dottoressa furono drammaticamente chiare: l’aborto ha impatti psicologicamente devastanti sulle donne [2]. Complessivamente, danni che l’aborto provoca alle donne si articolano in disturbi emozionali, fobico-ansiosi, neurovegetativi, della comunicazione, dell’alimentazione, del sonno, del pensiero, della sfera sessuale. Da non sottovalutare, infine, le pulsioni suicide [3]...



Sola con quel feto morto nel water

2010-05-26

Un’altra terribile testimonianza, pubblicata sulla Voce di Lugo del 22 maggio 2010

Il bimbo doveva nascere in questi giorni: “Ma nessuno allora mi ha aiutata”
Michela Conficconi

LUGO - E’ la storia di Milena (per ovvie ragioni il nome è di fantasia) la migliore risposta a quanti pensano l’aborto legalizzato come conquista epocale per la libertà della donna. Un’emancipazione che si traduce nella possibilità di compiere un gesto di cui per sempre si porteranno le “ferite” senza che l’ente pubblico si prenda davvero a cuore le situazioni che, quasi sempre, sono il vero ostacolo all’esercizio di una scelta veramente libera.
Milena, originaria del Marocco, 25 anni e residente in Italia da 7 con il marito e i tre figli piccoli, ha posto fine alla vita della quarta creatura che portava in grembo nel settembre scorso. Lo ha fatto perché si trovava in una situazione di grande difficoltà economica e familiare, aggravata da un contesto di ingiustizia sociale “borderline” nel quale non raramente finiscono gli immigrati. E’ ricorsa alla pillola Ru486, altro baluardo dei sedicenti fautori del progresso; e questo, se possibile, ha aggiunto dramma al dramma. Oggi dice senza esitazione: “Tornassi indietro non lo rifarei mai più. E’ stata l’esperienza più brutta della mia vita. La notte mi sveglio ancora e penso a quel bimbo che non ho fatto venire al mondo. Penso che forse si trattava di una femmina e che sarebbe dovuta nascere proprio in questi giorni. Guardo mia figlia più piccola, che ha un anno e mezzo, e prego Dio che perdoni quello che ho fatto perché io non lo dimenticherò mai”.
Alla decisione di interrompere la gravidanza la donna è arrivata spinta dalla disperazione. “Avevo partorito il mio terzo bimbo da appena 5 mesi e quella gestazione mi era costata il lavoro come badante che, anche se in nero, era comunque un’entrata importante – racconta. Quando la signora dove prestavo servizio ha saputo del mio stato mi ha invitato ad abortire perché altrimenti non mi avrebbe potuto tenere. Io però non ho avuto il coraggio e già al terzo mese di gravidanza mi sono trovata disoccupata. Nei mesi successivi mio marito ha perso il lavoro a causa della crisi, e ci hanno dato lo sfratto da casa perché avevamo pagato in ritardo l’affitto. Una situazione terribile. Finalmente, dopo il parto, ero riuscita a trovare una nuova occupazione in un ristorante. Un posto che per la mia famiglia era importantissimo perché significava l’unica entrata sicura. Poche settimane dopo ho scoperto la nuova gravidanza. Ero così spaventata che ho nascosto tutto ai datori di lavoro; non volevo che neppure pensassero alla possibilità che rimanessi incinta”.
Così la corsa all’Ospedale di Lugo, il colloquio con l’assistente sociale con l’invito a ripensarci senza l’offerta di un’alternativa concreta, e la proposta della pillola Ru486. “Non l’ho scelta io – ricorda – Mi hanno detto che rientravo nei termini per utilizzarla e non ho posto obiezioni”. Poi l’avvio dell’iter come da protocollo, rivelatosi tutt’altro che la “passeggiata” che qualcuno vorrebbe far credere; sia sul piano fisico che psicologico. “Mi hanno dato prima la pillola per fermare il cuore del bimbo – dice Milena – mandarla giù non è come bere un semplice bicchiere d’acqua, perché sai cosa stai facendo. Mi avevano detto che non avrebbe avuto nessuna conseguenza, che sarei stata bene e che potevo continuare le mie attività normali. Così sono andata al supermercato. Quando sono arrivata alla cassa ho invece iniziato a sentire un malessere fortissimo, con tremore alle mani, sudore e sensazione forte di freddo; sono svenuta. Fortunatamente c’era lì vicino una dottoressa che mi ha soccorso ed è stato chiamato il 118. Mi c’è voluto del tempo per riprendermi. Avevo la pressione bassissima”. Dopo due giorni la fase numero 2: la somministrazione della prostaglandina per l’espulsione del feto. “Ho preso la pillola in Ospedale e mi avevano spiegato che avrei iniziato a perdere sangue – spiega Milena – Al rientro ho sentito ancora un senso di svenimento mentre guidavo, tanto che ho rischiato un incidente. Mi sono dovuta fermare un po’. Rientrata a casa è iniziato subito il flusso, intenso, molto più di quello di una mestruazione, ed è durato 12 giorni, anche se è andato via via riducendosi. Per tutto il periodo è durato pure il dolore alla pancia, simile a quello che si prova nelle contrazioni all’inizio del parto”.
Più ancora del ricordo del dolore e del malessere, in Milena è vivo quello del momento in cui si è accorta di avere espulso il feto. Un’esperienza indelebile, concentrata in un’immagine fissata come una foto nel cuore e nella mente. “E’ stato nei primi giorni – spiega con dolore, continuando solo perché spera che il suo racconto sia utile ad altri affinché non ripetano il suo stesso errore – Mi trovavo in casa mia, sul water, e ho sentito uscire un grumo. Era una sostanza piccola di un colore vivo come quello del fegato. Era in mezzo al sangue. L’ho guardato a lungo. Non so dire quello che si prova, perché non ci sono parole”.