Adesso il mio incubo si chiama RU486

2013-01-15


di Benedetta Frigerio

Mara (il nome è di fantasia) ha abortito utilizzando la pillola Ru486 due anni fa, quando ne aveva 26. Oggi che di aborto farmacologico si è ricominciato a parlare, dopo che l’Agenzia italiana per il farmaco ha approvato la commercializzazione della pillola, Mara scopre che quello che le è capitato non è un caso, che altre donne hanno sofferto come lei e che nel mondo si contano 29 decessi seguiti all’assunzione della pillola. «Perché nessuno ne parla? Perché dicono di agire per il bene delle donne e ti spiegano che sentirai solo dei dolorini? Forse qualcuno ci guadagna qualcosa?», si chiede oggi questa donna che si dice a favore della libera scelta delle donne in tema di aborto.
Quasi avida di sapere tutto ciò che riguarda il “farmaco incubo” (così lo hanno chiamato in Cina dopo averlo ritirato dal mercato perché troppo pericoloso), Mara accetta di raccontare la sua storia a Tempi perché «spero che si faccia un’indagine su quello che fanno negli ospedali». «Per abortire mi sono rivolta al Centro salute donna di Piacenza, lì lavora la dottoressa che mi ha proposto la Ru486. Durante il colloquio la possibilità dell’aborto chirurgico è stata appena accennata. Il medico diceva che era un metodo invasivo e che si corrono seri rischi d’infezione, mentre con la pillola sarebbe stato tutto più semplice e sicuro, al massimo avrei sentito dei fastidi». Che le cose non stavano proprio così Mara avrebbe dovuto scoprirlo sulla sua pelle. 

Prima della decisione dell’Aifa del 30 luglio scorso le diverse sperimentazioni della pillola (tra cui quella dell’ospedale di Torino guidata dal ginecologo radicale Silvio Viale) furono sostituite da una pratica che di fatto aggirava il divieto di vendita e prevedeva l’acquisto dall’estero della pillola in via nominale per ogni paziente. Un procedimento applicabile per certi medicinali non ancora in commercio in Italia ma approvati dall’Ente europeo per il controllo sui farmaci. «Non capivo, ma mi sono fidata com’è normale. Precisavano che la pillola sarebbe arrivata dalla Francia e continuavano a ripetermi che sarebbe stata tutta per me. Mi dicevano: “Guarda, la confezione che compriamo è da tre pillole, ma è solo tua, ne usiamo una e le altre due le buttiamo”. Su questo dettaglio insistevano, come a sottolineare che a loro quelle pasticche costavano ma lo facevano per me». A distanza di tempo Mara ricorda stranezze a cui sul momento non diede peso. «C’era qualcosa di strano: la pillola non l’ho ingoiata in ospedale ma nel Centro salute donna. Due giorni dopo sono tornata per prendere altre medicine. La dottoressa mi aspettava al Centro per accompagnarmi lei in ospedale. Mi fece passare dal retro come per non dare nell’occhio e appena arrivata mi mandò a firmare un foglio, così, diceva “risulti ricoverata in day hospital ma in realtà torni a casa”. Subito dopo mi hanno somministrato il secondo farmaco, stavolta per via vaginale. Erano delle pastigliette».

«DA SOLA SAREI MORTA». 
Il farmaco in pastiglie che in questi casi viene somministrato per via vaginale è il Cytotec. Un tempo usato nei casi di ulcera e in grado di provocare contrazioni, oggi è sconsigliato dalle autorità sanitarie mondiali come farmaco abortivo per via dei gravi effetti collaterali. Anche questo dettaglio Mara lo apprende soltanto ora. «La parte peggiore è stata quando sono uscita: non appena salita in macchina ho incominciato a sentire delle fitte insopportabili, mi sentivo venir meno e penso sempre che se fossi stata sola forse non sarei qui, probabilmente mi sarebbe capitato un incidente. Fortunatamente c’era il mio ragazzo. Altrimenti come avrei fatto a salire le scale su cui sono svenuta? Chi mi avrebbe accudito quando sono entrata in casa vomitando per ore con sbalzi ormonali pazzeschi, sensazioni di freddo e caldo continue e tachicardie ripetute, mentre la violenza delle contrazioni mi piegava in due? E i giorni seguenti quando sono dovuta rimanere a letto come avrei fatto ad andare in bagno o anche solo a mangiare?». 

Spaventata, Mara pensa che qualcosa sia andato storto o di avere avuto una reazione allergica. «Chiamai la dottoressa che mi disse di tornare in ospedale solo nel caso di perdite emorragiche prolungate. Ho scoperto dopo che teoricamente dovevano farmi degli esami perché non tutti riescono a tollerare la pillola, ma a me di esami non ne hanno fatti». In effetti la procedura prevede di verificare l’assenza di ipertensione, aritmia, asma e allergia alle due pillole. In realtà i disagi subiti da Mara rientrano perfettamente negli effetti collaterali provocati dalla pillola. 
Un caso simile viene raccontato a Tempi da Graziella, cofondatrice e volontaria del Centro d’aiuto alla vita di Trento. «Due anni fa – spiega – una donna rumena venne qui e ci disse che voleva abortire perché era in Italia da sola e non sarebbe riuscita a prendersi cura di quel figlio. Noi le spiegammo che l’avremmo sostenuta sia economicamente sia fisicamente, ma in lei vinse il sospetto che dietro quella gratuità si nascondesse qualche interesse e decise di interrompere la gravidanza. Andò all’ospedale Santa Chiara dove le proposero la Ru486 come il metodo più innocuo». La voce di Graziella si fa più acuta, a tratti rotta: «Quando la richiamai mi raccontò che era spaventata per le perdite continue. Le dissi di tornare in ospedale. Andò avanti così per giorni ripetendomi continuamente “sto da cani, sto da cani”. Poi, dopo qualche giorno, è scomparsa e non so cosa le sia successo. Mi viene una rabbia che non so frenare quando penso a come trattano queste donne», conclude Graziella. La rabbia sale anche a Mara che non capisce «come mai queste cose non siano rese pubbliche e nemmeno quale sia l’interesse a tenerle nascoste, quando sarebbe semplicissimo fare dei controlli per sapere cosa è successo alle tante che hanno abortito con quel farmaco».

NON SOLO DOLORE FISICO. 
Anche sul web non è facile trovare le storie di chi ha sofferto per la somministrazione della Ru486 in Italia. A Mara mostriamo un articolo apparso su La Repubblica di Firenze il 28 febbraio del 2008, che non è facile trovare in rete. Mara lo legge con attenzione, velocemente, mostrando di nuovo quella voracità di conoscere la storia di altre donne che hanno abortito come lei. L’articolo racconta di una ragazza che ha usato la Ru486, anche a lei è stato somministrato il Cytotec. «Con quel farmaco – dice la ragazza a Repubblica – ti rendi conto di tutto. È dura, capisci quello che fai e lo fai con le tue gambe. Sono state quelle settantadue ore il momento più difficile, ti resta addosso qualcosa. In quei giorni hai sentito suonare un campanello d’allarme, che ti ha messo in guardia perché stavi impedendo all’organismo di concludere una cosa che avevi iniziato». 
C’è una parte molto peggiore del dolore fisico, ammette Mara. «C’è qualcosa di peggio. È stato quando sono andata in bagno per una semplice pipì, lì ho espulso tutto e ho visto il feto». Mara sgrana gli occhi, aprendo le mani come se avesse tra le dita un gomitolo. «Era grande così e non me lo dimenticherò mai». «Ci pensa spesso?», le domandiamo. «Sempre. Soprattutto al momento in cui ho visto il feto. Lì sei veramente sola anche se c’è qualcuno che ti sta a fianco, perché sei tu che hai dentro un figlio e sei tu che sei stata felice in quei mesi in cui te lo sentivi dentro». «Noi donne – è convinta Mara – siamo fatte anche fisicamente per la maternità, il nostro organismo sta bene quando ospita, e quando abortisci e induci le contrazioni gli fai fare qualcosa che è contro la sua natura. Ti tiri via una parte di te e ti senti svuotata. E sono convinta che con la violenza dell’aborto farmacologico lo senti anche di più». 

Dev’essere per questo che la ragazzina di Empoli che un anno fa ha abortito con la Ru486 non vuole parlare con Tempi e la sua mamma che si era aperta alle volontarie del Cav della città ha poi deciso di tacere: non se la sentiva più di ripercorrere un’esperienza così dolorosa. «Credo che sia così», risponde Mara risollevando lo sguardo. «Non si parla tranquillamente di una cosa del genere, anche la mia storia la conosce appena il mio ragazzo». Mara ha deciso di parlare con Tempi, sapendo che non sarebbe stato facile rivivere quell’«esperienza che ti porti addosso per sempre, perché spero davvero che la mia storia serva a far sapere la verità su questa pillola».

Adesso il mio incubo si chiama Ru486