Prima di avere il tempo di pensare

2008-03-30

Era il 19 maggio 1973. Ero incinta dopo che mi avevano drogata e violentata. Avevo cercato di nasconderlo ai miei genitori ma ovviamente lo scoprirono. Poi cominciarono a pressarmi. “Come farai ad andare al college con un bambino?” “Come pensi di mantenerlo?” “È solo un grumo di sangue. Non è ancora un bambino.” Prima di avere il tempo per pensare a che cosa io volevo, l’aborto era stato fatto.
L’aborto in sé fu come vivere l’inferno. Pensavo che le mie viscere venissero tirate fuori. È stato degradante ed ero terrorizzata. Quando finì, qualcosa mi fece chiedere al medico: “Era un maschietto o una femminuccia?”. Rispose: “Non posso dirlo. È a pezzi.” I consigli consisterono nel tirarmi qualche pillola anticoncezionale.
È così difficile esprimere a parole quanto l’aborto mi abbia influenzato. Guardando indietro e sapendo ciò che so ora, capisco che stavo attraversando una sindrome post aborto quasi classica. Divenni una barbona, dormivo con chiunque. Mi impegnavo in sesso non protetto e ogni mese quando non ero incinta cadevo in profonda depressione. Ero ribelle. Volevo che i miei genitori vedessero che cosa ero diventata. Smisi di andare al college. Cercai di suicidarmi ma non avevo il fegato per tagliarmi i polsi o farmi saltare le cervella. Non riuscivo a mettere le mani sui sonniferi così ricorsi a farmaci da banco per il sonno e agli alcolici.
Quando questo fallì, allora cercai di fare funzionare le relazioni con gli uomini, tutti gli uomini. Ero spinta al desiderio di avere un bambino e sapevo che se fossi stata sposata i miei genitori non avrebbero potuto farci nulla. Così mi sposai nel 1975. Mio marito ed io stiamo ancora insieme ma abbiamo dovuto lavorare molto duramente perché l’ho sposato per i motivi sbagliati.
Cinque mesi dopo che eravamo sposati nacque il mio primo bambino. Ero in paradiso. Ero matta per quel bambino. Dopo tre mesi ero ancora incinta. Ma stavolta perdemmo il nostro bambino a 6 mesi. Allora la depressione che avevo sconfitto venne fuori a tutta forza. Ricordo di aver pensato: “Merito questo dolore. Ho ucciso un bambino e ora Dio me ne ha preso uno. Lo merito”. Il medico si accorse che avevo una cervice debole, un comune effetto collaterale dell’aborto, e che il peso della bambina era troppo per essa e lei semplicemente era caduta fuori. Quattro mesi dopo ero ancora incinta.
È difficile spiegare questo bisogno di continuare ad avere bambini, ma lo feci. Dal 1976 con la nascita del mio primo bambino vivente, al 1985 con la nascita del mio quarto e ultimo figlio vivente, sono stata incinta in tutto per otto volte. Con la nascita del mio ultimo bambino il medico non mi diede altra scelta che smettere di avere bambini se volevo vivere abbastanza per vedere crescere quelli che avevo.
Cercando di trattare di aborto, dovevo affrontare ciò che avevo fatto e chiedere perdono al mio Dio. La cosa più difficile di tutte è cercare di perdonarmi. È una lotta quotidiana accettare il perdono che so che Dio mi ha concesso. E non lo dimenticherò mai. Però ora non voglio dimenticarlo, perché mi impedisce di compiacermi. So che se questo aiuta gli altri io ne posso parlare. Mi fa sempre piangere, ma se questo evita il dolore anche ad una sola mamma e al bambino, allora ne vale la pena.
Ho aderito al nostro centro locale per il Diritto alla Vita e per l’aiuto alle gravidanze difficili. Ho anche dovuto perdonare i miei genitori. Mi ricordo ancora quando entrai nella casa della mia mamma e le tirai un’immagine di un feto abortito e ringhiai: “Vedi che cosa mi hai fatto fare?”. Da allora anche lei è diventata pro-life e mi ha detto di essere tanto dispiaciuta. Devo ancora combattere contro la rabbia per mio papà, perché non vuole ancora ammettere che l’aborto era sbagliato, almeno per me.
Tutte queste cose aiutano? È difficile dirlo. A volte sì, ma a volte la depressione è troppo forte e deve passare un po’ di tempo. Non passa giorno che l’aborto non mi torni in mente. È una lotta continua cercare di superare la mia colpa e la mia depressione, anche sapendo di essere stata perdonata. Temo il giorno in cui verrò faccia a faccia con il mio piccolo bambino e dovrò spiegarle perché mamma le ha tolto la vita. Ma penso anche di essere adesso una persona più delicata e premurosa di quanto avessi potuto essere. Non fosse stato per l’aborto avrei potuto diventare una pro-choice [letteralmente pro-scelta, così si auto-definiscono gli abortisti nel mondo anglosassone].

Pubblicato originariamente in The Post-Abortion Review 2(1),Winter 1993
Copyright 1993 Elliot Institute
http://www.afterabortion.info/case_na.html


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