
Come trovi la forza di parlarne?
Le mie esperienze di aborto e la conseguente ferita di cui dopo vent’anni porto ancora i segni sono anche una testimonianza di conversione e di fede. Spero così di parlare al cuore di altre donne, anche solo di una, che forse sottovaluta cosa significhi per l’anima - o per la coscienza, se non ha fede - scegliere volontariamente di uccidere il proprio bambino. Non voglio convincere nessuno, ma mi piacerebbe che tutti riuscissero a immaginare la propria vita quando, un tempo lontano, avevano solo un giorno dopo il concepimento: quel giorno eravamo già noi, unici e irripetibili. Se qualcuno avesse deciso che quella cellula non avrebbe accompagnato il sorgere del sole del giorno due, noi non saremmo qua.
Come sei arrivata all’aborto?
Mia madre, dopo aver ricevuto un’educazione soffocante, divenne una donna assolutamente lontana dalla Chiesa, desiderosa di indipendenza e “libertà”. Io sono nata come figlia dell’amore, ma anche un po’ per gioco... Un gioco più impegnativo del previsto, così i miei genitori quando avevo 5 anni erano già divorziati e io crebbi in totale precarietà psicologica, tra un padre lontano e una madre al suo traguardo di “libertà”. Libertà di cui apprezzai presto il “vantaggio”: poter star fuori fino a tardi, andare in vacanza da sola a 14 anni, dormire col mio ragazzo... Cose proibite alle mie amiche, e ai miei occhi mia mamma diventò un mito. Come lei, venni su atea. Il resto è conseguenza: a 15 anni la paura di essere rimasta incinta e mamma che mi fa prendere la pillola del giorno dopo. A 18 anni incinta ci resto davvero e mamma organizza l’aborto, dicendomi che per un figlio c’è tempo, ora devo «godermi la vita». Anche il mio fidanzato, cui dico di un figlio nostro, risponde semplicemente «preferisco di no».
Come giudichi tua madre?
Indubbiamente ha sbagliato, ma so che era offuscata dalla fitta coltre di macerie che impedivano alla luce di entrare nel suo cuore. Più colpevole è stato il ginecologo, che non mi indirizzò ai colloqui psicologici previsti dalla legge 194 e obbligatori, e alle mie remore rispose che «fino a tre mesi non si può parlare di vita». Ancora oggi mi chiedo perché non mi fece sentire il “suo” cuore durante l’ecografia. Cuore che batte già dal 18esimo giorno. Così, mentre studiavo per la maturità, entrai all’ospedale di Desio.
Che cosa ricordi?
Mi misero un ovulo preparatorio e mi lasciarono in uno stanzone con altre sette donne. Una ragazzina nel letto di fronte al mio era tra il triste e il terrorizzato, ci fissavamo come per trovare appoggio l’una nell’altra, sul volto una richiesta di aiuto che non sarebbe mai arrivata. Ci venivano a prendere una dopo l’altra. Nel pomeriggio presero lei, uscì sveglia, rientrò addormentata e senza più il bambino. In un attimo di lucidità ebbi il coraggio di reagire e chiesi di andarmene, ma il ginecologo mi spiegò che quell’ovulo era abortivo, non potevo più tornare indietro. Finì con l’anestesia, poi il risveglio, vomito, dolori lancinanti, una emorragia... L’amore torna solo dopo anni di buio, e immediatamente resto incinta... Di nuovo penso a quanto mia madre sia un mito, e di nuovo il secondo fidanzato ripete quel «preferisco di no». Stesso ginecologo, stesso ospedale ma tutto rinnovato, questa volta niente stanzone, anzi, camera singola... Ullallà, devono rendere bene questi aborti, penso.
E inizia il precipizio...
Fatto di odio furioso, vuoto incolmabile, desiderio di togliermi la vita. Avevo solo 24 anni e i tredici successivi li ho passati tra psichiatri, psicofarmaci, libri new age, yoga, buddismo, insomma, la ricerca di “qualcosa”. E ogni volta le ricadute in quel baratro profondo. Mi divenne intollerabile pensare di spegnere una vita e, io che ne avevo soppresse due, facevo cose estreme come gettarmi vestita in piscina per salvare una coccinella che galleggiava e adorare i miei gatti per sostituire i miei figli... Poi è arrivato P., l’amore vero, e ho deciso che “ora” potevo avere un bambino. Ma “ora” era il bambino a non venire più... Ogni volta che vedevo un passeggino la rabbia diventava violenta. Il male mi aveva attanagliata.
Come arriva il primo spiraglio?

Quando, finalmente, la fede?
Quando, sempre per “caso”, siamo finiti allo Speco di san Francesco sulle colline di Narni, dove faticosamente una breccia si è aperta nel mio cuore ormai sfinito, e poi a Medjugorje, per una serie di “coincidenze” che ci hanno deviati laggiù mentre dovevamo andare al mare in Croazia. Sentivo che là, da Maria, avrei trovato la risposta e, non avendo i soldi per il viaggio, sono corsa a vendere tutto l’oro che avevo in casa, i regalini dei fidanzati che da anni erano chiusi in un cassetto: permettermi di fare una cosa tanto importante mi sembrava il miglior modo per ricordarli con la gratitudine che meritavano. La mia risalita verso la luce è stata costellata di incontri “casuali”, che Dio mi metteva sulla strada anche a costo di sofferenze indicibili, ma che mi avrebbero alla fine condotta a sentirmi da Lui perdonata e amata: era questo il pezzo fondamentale che ancora mi mancava.
E ora?
La mia vita è un pellegrinaggio fatto di curve, rovi, buche nelle quali ancora inciampo, ma ora mi affido a Gesù portando sulle spalle la mia croce. La croce di non essere madre. Lo sono stata di Andrea e di Camilla, per tre mesi rimasti nel mio grembo, nomi che ho dato loro al ritorno da Medjugorje senza nemmeno sapere se erano maschio o femmina, ma ho voluto così per chiedere a Maria di stringerli nel suo abbraccio materno.

1 commenti:
davvero una storia toccante e che fa riflettere molto..
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