Volevo solo rimettere il bambino dentro di me

2008-10-13

Mi chiamo Theresa Bonopartis e sono post-abortiva. Come molte adolescenti che si ritrovano incinte, ho nascosto la gravidanza ai miei genitori per paura. Ero al quarto mese quando alla fine ne ho parlato a loro e, anche se non me lo aspettavo, mi cacciarono fuori di casa e mi dissero di scordarmi di essere loro figlia.
Nelle settimane seguenti mi trovai senza lavoro, denaro e posto in cui vivere. Alloggiando temporaneamente da un’amica, mio padre mi faceva chiamare al telefono tutti i giorni da mia sorella per dirmi che voleva che abortissi e che avrebbe pagato lui. Giorno dopo giorno continuavo a dire “no”, ma dopo un po’, sentendomi disperata e come se non avessi nessuna scelta, cedetti alla pressione e acconsentii ad uccidere il mio bambino non ancora nato. Oggi non riesco ancora a ricordare come andai all’ospedale dove venne eseguito l’aborto. Nessuno si preoccupò di parlarmi dei fatti. Non conoscevo lo sviluppo del mio bambino. Nessuno mi parlò della procedura o di cosa stava per succedermi. Essendo adolescente, fui messa in una stanza per essere sottoposta da sola ad una procedura orribile. Una procedura che non avevo mai voluto ma che mi avevano spinto a subire.
Ricordo ancora il medico che entrava nella stanza con un sguardo sadico in volto mentre mi iniettava nell’addome la soluzione salina. Poi cominciò l’orrore. Sebbene allora non fossi consapevole di ciò che stava succedendo, sentivo il mio bambino che si dibatteva dentro di me mentre veniva bruciato a morte dalla soluzione. Cominciarono le doglie per partorire poi un bambino maschio morto, nella stanza, da sola, dopo 12 ore. Ricordo che guardavo mio figlio che giaceva nel letto vicino al mio. Vedevo i suoi piedini e le sue manine e tutto ciò che riuscivo a pensare era quanto volevo rimetterlo dentro di me. Non riuscivo a credere a ciò che avevo appena fatto o che questo fosse permesso. Chiamai l’infermiera che venne nella stanza, prelevò mio figlio e lo scaricò in un grande barattolo di plastica etichettato “3A”. La mia vita cambiò per sempre a partire da quel momento.
Da quel giorno in poi cominciai a percorrere una spirale discendente perché soffrivo di depressione, ansia ed attacchi di panico e feci innumerevoli scelte sbagliate perché non credevo di meritare niente di meglio. Sebbene cercassi aiuto, nessuno voleva parlare del mio aborto. I psicoterapeuti professionisti mi dissero ripetutamente che dovevo andare avanti con la mia vita. Lo stesso messaggio che viene dato oggi a tante donne che cercano aiuto. Per nessuno era legittima la mia pena o riconoscere ciò che era avvenuto. Avevo ucciso il mio figlio non ancora nato. Mi avevano fatto sentire matta e sola pensando che fossi l’unica che soffriva delle conseguenze dell’aborto. La verità è che ci sono innumerevoli persone che soffrono.
Per anni ho vissuto la mia vita nell’infelicità. Feci una brutta scelta come marito, uno che abusava di droga e alcool. C’erano giorni in cui non ero nemmeno capace di alzarmi. Alla fine l’aborto incideva su ogni aspetto della mia vita, mentre la società ed i professionisti continuavano a dirmi che non aveva niente a che fare con l’aborto nonostante io continuassi a dire che non era così. Persino oggi ci si dà un gran daffare per liquidare lo stress post aborto come mostra un articolo del New York Times Magazine: “Esiste la sindrome post aborto?”. Quand’è che siamo diventati una società dove uccidere il tuo figlio non ancora nato e farsene tormentare è inaccettabile e negato? Non è per niente sensato.
Passarono molti anni prima che trovassi l’aiuto che cercavo per trovare la guarigione. Attraverso la mia fede e cercando un terapeuta che trattasse i problemi del post aborto, riuscii finalmente a guarire dal mio aborto. Oggi, se l’aborto infastidisce qualcuno, la società è svelta a dare la colpa alle credenze religiose di una persona che, dicono, instilla “senso di colpa e vergogna”. La mia fede non mi instilla senso di colpa e vergogna, la mia fede mi porta la misericordia di Dio, il suo perdono e la sua guarigione: è stato l’atto di uccidere mio figlio e vederlo morto sul letto accanto a me che mi ha instillato il senso di colpa e la vergogna.
La gente protegge il diritto di abortire perché crede alle bugie di cui noi, come società, siamo stati imbevuti negli anni. La mia speranza è che le donne a cui hanno fatto credere che l’aborto è una libertà, quando in realtà è una schiavitù, arriveranno a vedere, mentre sempre più donne dicono ad alta voce la verità, che la verità è ciò che ci rende liberi.
Grazie.

Theresa Bonopartis è il contatto per lo stato di New York di Operation Outcry ed è direttrice di Lumina/Hope & Healing after abortion, un servizio di indirizzamento post aborto. Ha due figli maschi, uno dei quali sta prestando servizio come marine.

http://64304.netministry.com/images/TheresaBonapartis-Sep2007_2_.pdf


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