Una grande parte di me è morta con il mio primo aborto

2010-06-20

 La testimonianza che segue è tratta dal libro Giving Sorrow Words: Women's Stories of Grief After Abortion [Dare parole al dolore: storie femminili di lutto dopo l’aborto].
Copyright 2007, Melinda Tankard Reist.

Ricordo chiaramente gli eventi che hanno fatto da cornice ai miei aborti. Ci sono alcune cose che sono così sommamente terribili, così devastanti, e non svaniscono mai dalla mente o dal cuore.
Idolatravo il mio ragazzo, che avevo incontrato quando avevo 17 anni. Stavamo insieme, tra alti e bassi, da diversi anni. Nonostante il modo in cui mi trattava, che talvolta poteva essere molto crudele, e nonostante il suo brutto carattere, lo amavo veramente. Dovevo solo sforzarmi, o essere migliore, o stare attenta a non farlo arrabbiare. Temevo il suo carattere e avrei sopportato quasi qualsiasi cosa per evitare una scenata.
Penso che lui ne sia gradualmente diventato consapevole, perché nel corso degli anni il suo dominio su di me è arrivato a un punto tale in cui è diventato un tiranno.
Dovevo vestirmi come diceva lui, pettinarmi come voleva lui, che non avessi amici per conto mio a meno che lui non fosse fuori città. In realtà non ho mai smesso di analizzare tutte queste cose. Ero troppo giovane e infatuata di lui per comprendere che la nostra non era una relazione normale. Credevo che, se solo fossi riuscita ad accontentarlo di più, tutto sarebbe andato bene.
Quando scoprii di essere incinta, ero eccitata. Non era previsto, ma ero davvero felice. Passai la maggior parte della giornata a pensare a quando sarebbe nato il bambino, che aspetto avrebbe avuto, e pensieri come questi, ma quando il mio ragazzo arrivò a casa e gli diedi la notizia, si infuriò in modo terrificante. Piansi, implorai, tentai di addolcirlo, ma invano. Era risoluto sul fatto che dovevo abortire.
Una settimana dopo ero nella clinica per aborti con lui, per avere una presunta “assistenza” da una persona della clinica. Lei aveva circa 40 anni, portava gli occhiali ed una giacca bianca. Sembrava così materna e empatica inizialmente; ci disse anche che aveva quattro figli. Piangevo a più non posso, ripetendo in continuazione che non volevo abortire. Ero disperata. Sapevo che per me era impossibile oppormi al mio ragazzo con le mie sole forze, ma pensavo che questa “assistente” avrebbe potuto sostenermi e forse aiutarlo a ragionare.
Invece si mise dalla sua parte. Adesso avevo due persone che mi facevano la predica. Ripetevo in continuazione che volevo avere il bambino, ma loro due mi misero al tappeto. Mi sentivo messa in un angolo. Ero seduta, e loro erano in piedi davanti a me. Una volta feci un corso su come concludere una vendita, e mi sembrava che questa “assistente” doveva essere andata agli stessi corsi sulle vendite.
Ci fu un istante di pausa nel lavaggio del cervello, quando stavo per dire: “Quale commissione le danno?” ma naturalmente non lo feci. Ero seduta e piangevo. Non mi chiesero mai come mi sentissi, o che cosa volessi. Né mi furono date informazioni sugli aiuti possibili per le ragazze madri. E neanche fu mai considerata la possibilità dell’adozione. Mi dissero solo, ripetutamente, che non era possibile che potessi sopravvivere da sola con un bambino, che prima o poi non ce l’avrei più fatta, il mio ragazzo non mi avrebbe più rivista, i miei genitori non mi avrebbero mai perdonata, e così via.
Un ricordo che emerge fortemente da questo episodio è la falsa informazione datami sia dall’“assistente” sia dal medico che avrebbe eseguito l’aborto. Cioè che a quello stadio della gravidanza il bambino non era assolutamente umano; era semplicemente un “insieme di cellule, non più grande della capocchia di un fiammifero”.
Dopo allora ho imparato, naturalmente, che ad otto settimane il cuore del mio bambino stava già battendo da più di un mese, e che molti altri organi avevano cominciato a formarsi. Il bambino era già cresciuto molto più di quanto fui portata a credere.
Mentre stavo ancora piangendo disperatamente, fu preso un appuntamento per l’aborto per la settimana seguente. Non dimenticherò mai quell’aborto né la settimana che l’ha preceduto. Ho provato in ogni modo a seppellire i ricordi e ad andare avanti come se la vita fosse normale, ma come poteva essere ancora normale quando dovevo vivere con la consapevolezza che il mio bambino era stato ucciso e smembrato dentro il mio corpo? È un fatto troppo orribile e repellente per potercela fare.
Dopo l’aborto, il comportamento del mio ragazzo verso di me divenne sempre peggiore. Sembrava provare godimento dall’essere crudele con me, e rideva o esplodeva di rabbia quando piangevo, cosa che facevo spesso. Aveva sempre avuto delle storie prima, ma ora sembrava che non gli importasse più che io lo sapessi.
Sopportai tutto questo. Deve sembrare incredibilmente stupido, ma suppongo che il mio ragionamento fosse che dopo ciò che avevo fatto per lui non era possibile che lasciassi fallire ora la nostra relazione, altrimenti la morte del mio bambino sarebbe stata per nulla. L’avevo fatto per tenerlo; non potevo lasciarlo dopo tutto questo.
E così continuò, lui diventava sempre più sadico con me, ed io subivo sempre di più senza lamentarmi. Quando rimasi incinta per la seconda volta, non ci fu discussione su cosa si doveva fare. Allora ero così condizionata ad essere sotto il suo controllo che io stessa prenotai la clinica ed abortii, dopo avere visto lo stesso “assistente” e dopo essere stata frettolosamente rassicurata che, naturalmente, stavo facendo la cosa giusta.
Come con il precedente aborto, sentivo che non avevo nessun posto e nessuno a cui rivolgermi, così era più facile andare avanti con tutti. Inoltre tanto di me era morto con il mio primo bambino, non era rimasta nessuna voglia di lottare.
Incredibilmente, rimasi incinta una terza volta. Stavolta sapevo di non poter affrontare un altro aborto. Avrei avuto un esaurimento nervoso o mi sarei suicidata. Il mio lavoro mi portò fuori città per due mesi questa volta, così aspettai di essere sicura in un’altra città prima di telefonargli e dirgli della gravidanza. La sua reazione fu, come prima, furia assoluta. Deve avermi chiamato circa ogni notte in cui ero via, mai per dirmi che mi amava o che gli mancavo, ma solo per urlare nel telefono che la prima cosa che avrei dovuto fare al ritorno sarebbe stata abortire.
Mentre ero via avevo molto tempo libero, e ne passavo la maggior parte a riposare e a fantasticare sul bambino. Ero sicura fosse un maschietto, gli parlavo, gli dicevo quanto fosse prezioso e amato. Mi sentivo abbastanza forte, quando tornai a casa incinta di tre mesi, da rompere la relazione e tirare su da sola il bambino. Due giorni dopo, però, anche questo bambino fu abortito, nella stessa clinica, tra lacrime e angoscia indescrivibile. Il mio ragazzo e l’assistente si presero un caffè lì vicino.
Poche settimane dopo lui letteralmente mi trascinò a visitare sua sorella ed il suo bambino appena nato. Fu la cosa più difficile che dovetti mai fare. Il mio cuore ed il mio spirito erano completamente a pezzi. Ero così sommersa dal senso di lutto che pensavo non avrei mai potuto continuare a vivere.
Alla fine riuscii a resistergli. Avevo una famiglia, i suoi figli, e sebbene non fossi sposata con lui quando nacque il nostro primo figlio, i miei genitori erano amorevoli e mi sostenevano. Divorziammo quando nacque il nostro terzo figlio, perché provò ancora con forza a persuadermi ad abortirlo, e rifiutai.
I miei figli sono meravigliosi e sono davvero felice. Li amo più di quanto pensassi fosse possibile. I bambini che sono stati presi via da me, però, vivranno sempre nel mio cuore. Non c’è modo di comunicare l’enormità del mio dolore, o di dire quanto disperatamente li desidero. I miei figli sono ciò che mi mantiene sana di mente; ciò che mi fa andare avanti è il pensiero che un giorno saremo tutti riuniti insieme.

http://www.theunchoice.com/UnChoiceStories/unchoicestorieswhyGod.htm


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